Cala il sipario sul caso “Rame”. L’assurda vicenda che comincia quattordici anni fa, e che adesso volge al termine. In mezzo, fascicoli, pareri contrastanti, sentenze del Tar e del Consiglio di Stato, per stabilire se un piccolo corso d’acqua fosse un torrente o meno.
Torrente o fosso? La paradossale vicenda che ha visto protagonisti l’ex società “Rame” e il Comune di Bellizzi volge al termine: il Consiglio di Stato, lo scorso 11 febbraio, ha messo la parola fine dopo quattordici lunghi anni d’attesa. L’Ente di via Manin non dovrà risarcire la società che, nel 2006, aveva avviato i lavori per costruire un impianto di riciclo dei rifiuti sul territorio di Bellizzi. Per ricostruirla, la vicenda, bisogna tornare indietro di almeno diciassette anni. Quando la Campania era in piena emergenza rifiuti, e l’impossibilità di smaltire i rifiuti sul territorio era un grosso problema.
Tant’è che la società “Rame” presentò un’istanza di autorizzazione alla Regione per realizzare un impianto di trattamento rifiuti derivanti da attività di costruzione e demolizione. Arrivò l’ok da Palazzo Santa Lucia, dall’allora giunta guidata da Antonio Bassolino. E nel 2005 Invitalia, al secolo Sviluppo Italia, concesse il finanziamento. Nel 2006 il progetto fu approvato, e cominciarono i lavori. Poi, il grande intoppo. L’opera sarebbe dovuta sorgere nella zona del Vallemonio. Ed ecco che la Soprintendenza intervenne bloccando i lavori. «Il Vallemonio è un torrente, l’impianto va chiuso fino a quando non si accerterà l’esistenza di un vincolo paesaggistico» sostennero gli organi del Ministero dei Beni Culturali.
Bisognava stabilire, dunque, se il Vallemonio fosse un torrente o un fosso. E passarono ben 7 anni, con una serie di pronunciamenti spesso contrastanti tra di loro. Il Tar sposò la posizione della Soprintendenza, la Regione si oppose perché c’era un parere del Genio Civile secondo il quale era vero il contrario, il Consiglio di Stato si schierò a favore della società ribaltando una sentenza del Tar datata 2013. Intanto, in una situazione di estrema incertezza, Invitalia ritirò il finanziamento. E il caso finì in Tribunale. La società Rame presentò il conto al Comune di Bellizzi e alla Soprintendenza: un risarcimento da 4 milioni di euro, perché intanto l’azienda era finita in liquidazione.
Il sindaco Mimmo Volpe, la commissione edilizia e i dirigenti dell’Ente di via Manin, furono accusati di abuso d’ufficio e falso in atti pubblici, fin quando la Corte d’Appello, nel 2018, stabilì la loro innocenza. Dopo 12 anni, infatti, precisamente a giugno del 2018, ne uscirono tutti indenni. E adesso è arrivata anche la sentenza definitiva del Consiglio di Stato sul risarcimento dei danni chiesto dalla società “Rame” al Comune di Bellizzi a partire dal 16 marzo 2007, data in cui i lavori vengono ufficialmente sospesi e decade il permesso a costruire rilasciato dall’Ente.
Le toghe romane, il presidente Giancarlo Montedoro e l’estensore Francesco De Luca, non hanno individuato la sussistenza d’una condotta colposa da parte dell’amministrazione comunale all’epoca retta dall’attuale sindaco Mimmo Volpe, ritenendo che l’assoggettabilità della zona interessata dal progetto edificatorio al regime vincolistico era, infatti, particolarmente problematica, come dimostrato dalla complessità della stessa vicenda procedimentale. Fosso o torrente? Quattordici anni dopo cala il sipario sulla paradossale vicenda.