Giovanni De Luca è campione del mondo. Il 34enne battipagliese trionfa nella cornica romana superando un atleta uzbeko in semifinale, e uno brasiliano in finale. «Il segreto? In palestra siamo come una famiglia».
Dieci anni fa, il Muay Thay, la boxe thailandese divenuta famosa in tutto il mondo, non era manco nei pensieri di Giovanni De Luca. Che, all’età di 24 anni, preferiva rincorrere una sfera sui campi da calcio. Poi, quasi per gioco, grazie ai suggerimenti di un amico, entrò in palestra per provare. E da lì non ha più smesso.
«È nata una vera e propria passione. Mi è piaciuta sin da subito, e dal primo giorno in cui sono entrati in palestra non sono voluto più uscire».
-Qual è la differenza tra il Muay Thay e la K1?
«Sostanzialmente parliamo di discipline molto simili, praticamente mancano solo le gomitate e le gomitate con la presa. In Europa ci sono regole più rigide, meno crude. E per questo hanno trasformato e semplificato togliendo le tecniche più pericolose».
-Come ti sei trovato a Roma, a gareggiare per il titolo mondiale?
«Ho iniziato a gareggiare sin da subito, e dopo un anno e mezzo vinsi il primo campionato interregionale. Titolo che ho mantenuto per 4 anni consecutivi, dal 2015 al 2018, guadagnandomi la possibilità anche del match “Imperator” a dicembre 2018. Vinsi il titolo italiano, confermandolo anche a dicembre 2019».
–Poi è arrivato il Covid…
«Sì. E ha fermato tutto per un anno e mezzo. Dopo poco che abbiamo ripreso, sono stato chiamato per la gara di Roma, dove gareggiano tutti gli atleti che vincono nei loro paesi. Io mi sono guadagnato il pass grazie agli ultimi titolo italiani. Ed è andata alla grande. Prima ho sconfitto il campione uzbeko in semifinale. E poi nell’ultimo atto il campione brasiliano».
–Il segreto di questi successi?
«La palestra, che è come una famiglia grazie al nostro istruttore Peter Terer, un ragazzone cecoslovacco proprietario della “Big Bear Fighting”. Con lui, nonostante avessimo un rapporto allievo maestro, è nato sin da subito un rapporto di amicizia e fiducia, di stima reciproca che conserviamo ancora oggi. Sembra cattivissimo, ma dopo 5 minuti ti rendi conto di che persona d’oro è, anche nel rapporto che ha con i suoi allievi bambini. Spesso veniamo considerati come persone aggressiva, per lo sport che pratichiamo, ma chi lo vive da dentro sa che siamo come una famiglia con alla base il rispetto: Terer ci ha insegnato che l’avversario non va mai sottovalutato né preso in giro, ma sempre rispettato»
-E gli obiettivi per il futuro? Le Olimpiadi?
«Ho 34 anni, e la fortuna di aver avuto solo qualche lussazione o leggera contusione. Mai uno stop lungo. Se dovesse continuare così, credo di poter gareggiare per altri 4 o 5 anni. Le Olimpiadi? Non ci spero, né ambisco, perché ci sono ragazzi bravissimi e più giovani di me, ed è doveroso dare spazio a loro che sono il futuro. Il mio obiettivo è continuare a ottenere risultati per la città e per la palestra di Peter: se vinco io vincono tutti».