In ufficio tutte le finestre danno sulla collina di Battipaglia. Essendo abbastanza in alto e abbastanza in periferia, la vista è perlopiù sgombra, e posso ammirarla distesa come un Buddha che dorme, appena dissimulato da una coperta d’alberi. È una visuale felice, perché quel pezzo di collina che ogni giorno si offre ai vetri, a parte qualche ruga di cava e qualche verruca di cemento, sembra aver retto il tempo meglio di ogni cosa che è a valle.
Arrivo a vederne anche la testa impreziosita da un Castelluccio che ha di vero ciò che non si vede e d’impostura tutto il resto, eppure caro e meritevole di miglior sorte. Per fortuna, dallo sguardo è esclusa la parte mangiata dalle cave alla porta est della città, piaghe ai piedi di un diabete mai curato. Per quanto non l’abbia frequentata – troppo lontani i tempi in cui vi si facevano scampagnate, troppo urbana la mia adolescenza per andarci a combinare guai – a guardarla a lungo mi dà sempre un languore di nostalgia, d’infanzia, perché riaccende alla memoria la Battipaglia di quarant’anni fa.
Un paese dove ancora la collina scendeva con ampie lingue di verde a infilarsi nei quartieri che la lambivano, bordo frastagliato come quelle foci dove l’acqua di fiume e di mare si confrontano e si fondono lungo linee mutevoli. Un tempo in cui ancora potevi avere percezione di quanto Battipaglia fosse solo una peluria cresciuta all’incrocio tra due strade, dentro tutto un viso roseo di terre intorno. Non so cosa significhi esattamente questa nostalgia.
Forse è solo rimpianto di ciò che poteva essere e non è stata, sentimento e destino che sembra accomunare il Sud e costituirne la vera anima. O forse è pietà per l’età adulta di un paese ragazzino che non vedeva l’ora di crescere pure a costo di baffi finti, di sigarette tossite, di prostitute da due soldi e ora si scopre un vuoto dentro, insegue quel candore che gli sembrava debolezza in gioventù collezionando soldatini di avi immaginari, figurine di tradizioni sconosciute, giocandoci alla sua scrivania di Doktor Faustus.