I miei genitori sono anziani e malmessi. Reggono, barcollando un po’ ad ogni vento, che poi bastano gli spifferi, perché a quella età ogni spiffero è vento. Noi figli con loro. Pariamo quel che possiamo, a volte raccogliamo da terra, perlopiù l’umore, talvolta i corpi. I miei genitori sono in definitiva coloro che in questi giorni di coronavirus finiscono nella voce “categorie a rischio”, statistica irrorata da ogni media che intenda placare gli animi, perché un po’ rassicura sapere che i sani e i giovani si salvano, il mondo si regge su di loro, cade giù chi già stava nella scarpata, per effetto di quel famoso piede nella tomba che, per chi non frequenta i vecchi, sembra il primo passo, l’altro piede seguirà, senza sapere quanto i vecchi siano capaci di fare della tomba una calzatura un po’ larga con cui continuare a camminare, zoppicando semmai, come quando si sciolgono i lacci o si rompe il tacco a una scarpa.
Se da un lato la mia età mi consola, per quanto io lambisca il margine di una vecchiezza che l’Occidente sa spingere sempre un po’ più in là, cronicizzando acciacchi e paure, pillole e speranze, m’inquieta vivermi come possibile untore dei miei genitori, magari asintomatico, cavallo di troia dell’assedio quotidiano di ogni esercito malevolo, dal Parkinson alla caldaia difettosa, dall’incontinenza alla fila in farmacia, inconsapevole angelo della morte perché baci abbracci e carezze medicano quanto il Sinemet, perché il saluto all’indomani regge la notte ad entrambe le case, salva il sonno a loro che aspettano me come alito di normalità, a me che vivo la corvée come espiazione alla colpa di non portare la loro croce. Certo mi rinfranca e mi illude il pensiero di avere un’indole e un conseguente stile di vita naturalmente aderente all’asocialità che le epidemie prescrivono, ma non basta perché pur devo solcare luoghi pullulanti di baciatori gratuiti e a sbafo, di abbracciatori seriali e di socializzatori in generale, varia umanità imperterrita a specchiarsi nell’altro per conferma di sé, volenterosi carnefici magari per nome e conto di un’economia che non può andare a rotoli.
Che poi non è nemmeno l’idea della morte a ferire, chi vive nell’età “a rischio” un po’ ci lotta un po’ ci spera, secondo quell’arte marziale di cui la vecchiaia fa diventare maestri gli uomini. Ferisce l’idea di una fine su qualche barella, in qualche tenda ospedale, senza nessuno affianco, in una condizione che aggiunge al disprezzo per il corpo vecchio e malato – mai abbastanza biasimato per il cattivo gusto di non sgombrare, ospite malvoluto alla normalità, immigrato clandestino alla sua stessa realtà, secondo leggi della giungla che manco Cristo ha scalfito – aggiunge il disprezzo per l’agente patogeno, contaminante, corpo nel corpo che cerca corpi in obbedienza a quella stupida riproduzione di specie a cui la vita costringe tutti, il virus e la balena, il cretino e il genio, forza motrice e insieme tritacarne.
Il lazzaretto è il rischio, il buio in fondo al tunnel, per una sanità meridionale che pare sempre sotto il calcagno di una guerra, fatiscente anche nelle sue punte eccellenti, figurarsi sotto lo stivale di una epidemia sconosciuta, che ci terrorizza e che pure non riusciamo a prendere sul serio – andiamo sulla Luna, e non riusciamo a…si diceva un tempo. Ora la misura è il viaggio su Marte, ma non riusciamo lo stesso a fermare un cosetto che devi metterne diecimila affiancati per avere un millimetro, per la serie è l’infinitamente piccolo che ci frega, perché l’uomo nella sua piccolezza è più prossimo all’infinitamente piccolo, l’infinitamente grande per la sua distanza fa meno danni, il cielo ha illuso ma mai ucciso gli uomini, al massimo i dinosauri, non a caso abbiamo posto gli dei sopra le nuvole, che ci lasciassero in pace noi qui che abbiamo tanto da lottare prima di finire, costruendo intanto la speranza che ci attenda un perenne altrove, quel giorno lì, a consolazione e conforto, a riparazione, perché sennò fanculo tutto, che ne è stato di ogni bene e di ogni male, allora? E di tutto il dolore? Di tutto l’amore?