L’ultima lezione: il racconto di Giuseppe Rago, insegnante in Veneto da cinque anni.
Vivo in Veneto da cinque anni, nel cuore della prima zona “gialla”. Mi sono sempre ritenuto un insegnante per sbaglio. Già, perché insegno. E ho delle quinte da portare alla maturità. Qua – con carnevale – siamo già a tre settimane di blocco scolastico. E oggi, dopo aver passato una mattinata a correggere con paint le foto degli esercizi su proposizioni oggettive e soggettive (che mi confondo ancora io stesso, ‘mannaggia’, come glielo spieghi sulla piattaforma?); dopo aver confezionato nel pomeriggio un appassionante audio su Giuliano l’Apostata e una video lezione su corporativismo e patti lateranensi; dopo aver corretto un compito fatto al pc (probabilmente con copia/incolla) su Pirandello e l’umorismo (alla ricerca delle fonti wikipedia da cui s’è attinto, più che altro).
Oggi 11 marzo, dopo venti giorni (chiusura poi prolungata sino al 3 aprile, ndr), è ufficiale: mi manca la scuola, mi mancano i ragazzi in classe, mi manca incazzarmi perché non vogliono fare niente, mi manca sorprendermi per quella domanda intelligente o per un’interrogazione particolarmente brillante, mi mancano i prolassi diuretici collettivi che li inducono ad andare in bagno in quindici al cambio d’ora (a provarci, cioè). Alcuni di loro li ho davanti a me da cinque anni: li ho conosciuti che erano poco più che bambini, quando sono arrivato a Treviso; me li ritrovo giovani uomini e donne alla vigilia del rito di passaggio all’età adulta.
Ci siamo salutati un venerdì qualunque alla vigilia del rush finale che li avrebbe condotti a quel rito, con la prospettiva di ritrovarci presto a Berlino in gita (wow!): di loro conosco le grafie (e il modo in cui sono cambiate negli anni), il modo in cui piegano il foglio, il modo di farmi fesso (e ci riescono puntualmente); con molti ci capiamo al primo sguardo, ma alcune volte non ci capiamo proprio: eppure mi manca anche quello, perché la scuola è risate e studio, ma anche lacrime e sangue (metaforico, si intende): dimensione collettiva, tribale quasi, di un tempo che fugge – oggi più che mai – e che non torna.