A me gli occhi

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Il sensazionalismo a salve, l’esaltazione della normalità, la politica del fare… niente. Chiaro che lassù a Roma fanno scuola da sempre, specie ora che c’è la giusta e corposa rappresentanza parlamentare anche di pregevoli nicchie intellettuali come i briscolari del circolo caccia e pesca o la casalinga di Voghera: ma ormai anche qua nel piccolo, a qualunque livello istituzionale, è tutt’un rincorrersi di annunci, proclami, sbandieramenti di chissà quali roboanti risultati ottenuti su azioni che – scava scava – rappresentano roba che sì e no s’azzecca all’ordinaria amministrazione.

Troupe fotografiche concentrate sul camion dell’immondizia che ripulisce una zona imbrattata, operatori cine-televisivi che riprendono in alta definizione la copertura a catrame vecchio della buca nel vicolo, Alberto Angela che scende dritto in strada a esaltare le doti avvitatorie dell’operaio che sta cambiando la lampadina al lampione: ogni atto amministrativo che a qualsiasi tizio normodotato apparirebbe come normale, consueto, dovuto, è invece esaltato da chi lo pone in essere come espressione d’un’eccellenza e un valore aggiunto che altrove scordatelo: “Visto? Stamattina è sorto il sole, chi altri avrebbe potuto garantirvelo, ricordatevelo in cabina elettorale”.

Come se io, che metto tavola occupandomi di contabilità, a ogni bilancio depositato o tassa pagata sfilassi sui social un selfie tronfio e soddisfatto con le didascalie tipiche dei sindaci di adesso: “Ogni promessa è debito, vinta anche questa sfida contro il tempo, a differenza di chi vende chiacchiere noi facciamo i fatti”, e giù di lì, millantando performance da genio della finanza fresco di master della Luiss e della Bocconi quando in realtà ho fatto esattamente la roba per cui vengo pagato: sottrarre costi dai ricavi e copiare un importo su un modello F24.

Ora, per carità: capisco che Battipaglia sia una piazza difficile, che abbia una storia politica tormentata, che covi in seno una corposa fetta di cittadini in cui aleggia un’anima particolarmente critica e poco disposta sia a perdonare che a dimenticare. Ma questa necessità di doversi auto-immortalare nella quotidianità dell’azione amministrativa, anche negli atti più palesemente spontanei e d’ufficio, si presenta doppiamente emblematica: e se da un lato appare come un semplice – e forse obbligato – accodamento a questa nuova dialettica senza paletti di forma, consolidatasi nella macchietta dei fratacchioni e dei lanciafiamme e nella prevaricazione soccombente all’azione, dall’altro evidenzia una crescente necessità di stare sulla difensiva, di giustificarsi la nota spese, di dover costantemente documentare che non si sta a Palazzo a sformare pagliette.

Perché, in realtà, ad abbassare troppo il livello comunicativo c’è anche il rischio di ferirsi con la stessa arma con cui si attacca. Fare sfoggio di ogni riparazione di marciapiede significherà, un giorno, essere criticati e messi alla gogna per un marciapiede trascurato anziché essere apprezzati per aver sensibilizzato la comunità su un tema sociale, concepito un piano di rilancio industriale, incassato un fondo regionale. Del sarto giudichi il vestito che confeziona, non se allaccia o meno la cintura in macchina quando va a comprare i bottoni.

Torniamo concreti, allora. Parliamo di sostanza. Ché, ora come ora, a ripulire i banchi dai resti delle guerre a palline di carta non c’è né tempo né – in verità – alcuna voglia.