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Piana del Sele: il rapporto sul caporalato della Cgil e le misure per contrastare il fenomeno di sfruttamento sempre più diffuso nelle zone a forte vocazione agro-alimentare. La terza parte del dossier (qui la prima e qui la seconda) “Agromafie” fornito dall’osservatorio “Placido Rizzotto”.

Sfruttamento “a contratto” e condizioni di schiavitù nei campi della Piana del Sele. Due terzi del dossier denunciano le assurde condizioni che i lavoratori stranieri, comunitari e non, sono costretti a subire per guadagnarsi da vivere in un settore, quello agro-alimentare, che dietro la rucola, i pomodori, e le fragole – fiore all’occhiello della Valle del Sele – nascondono un mondo di illegalità e di irregolarità.

Ma come si contrasta il fenomeno del caporalato? Né la legge 199, né la sanatoria inserita nel decreto Rilancio, sono riuscite a porre un argine al fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori e della lavoratrici nei campi. I dati forniti dal report dell’osservatorio “Placido Rizzotto” (Cgil Campania) restituiscono una fotografia agghiacciante dell’ultimo biennio.

L’AZIONE SINDACALE E QUELLA ISTITUZIONALE

Al contempo cercano anche di offrire una soluzione. Due strade: quella sindacale e quella istituzionale. Dal 2019 la Regione Campania ha attivato dei progetti, finanziati dal Ministero del lavoro e degli Interni, denominati “Supreme” e Più Supreme”, che prevede interventi in favore dei migranti e dell’emersione del lavoro nero, per contrastare lo sfruttamento che ne consegue. In campo ci sono anche la Magistratura e la Polizia che cercano di combattere il fenomeno del caporalato, inteso – riporta il dossier – «come rapporto illegale e
assoggettante tra l’intermediatore di manodopera e l’imprenditore approfittatore e irresponsabile».

I rapporti di lavoro considerati “indecenti/servili” sono il 15%, mentre l’85% lavora in condizioni “non buone/non conformi” alle direttive dei contratti nazionali. Situazioni che, nel corso del tempo, hanno portato all’arresto di imprenditori e intermediari illegali che abusavano delle palesi condizioni di vulnerabilità dei braccianti. «I bassi salari (di circa 15.000 addetti agricoli della Piana di fonte sindacale) – e le pratiche illegali che li sottendono – minano alla base i medesimi processi di produzione. Ebbene: emarginando questi lavoratori (con ripercussioni dirette sul versante alloggiativo) si riduce di conseguenza la loro piena capacità di consumo di beni ai minimi termini e dunque la rispettiva partecipazione alla riproduzione dei prodotti della Piana e finanche di quelli correlabili agli altri consumi strutturali di prima e seconda necessità» si legge nel report dei sindacalisti.

IL CONTRATTO: UN’ARMA A DOPPIO TAGLIO

Le difficoltà a denunciare, a far emergere le situazioni di illiceità, stanno tutte nel contratto che le maestranze sottoscrivono. Quando un bracciante accetta le condizioni proposte dall’imprenditore, controfirmando la busta paga, ne legittima il contenuto. E lo sfruttamento che viene perpetrato. Un contratto-ricatto, poiché i lavoratori stranieri sono costretti ad accettare anche le condizioni di schiavismo pur di ottenere il permesso di soggiorno valido a essere considerato un “regolare” a tutti gli effetti. «I testimoni in questi casi sono importanti, ma non c’è sicurezza – quando sono anch’essi braccianti e colleghi di chi ha promosso la denuncia – che vengano al dibattimento giudiziale per paura di essere successivamente licenziati» prosegue il dossier, che evidenzia tutte le difficoltà a scardinare il sistema.

Un’altra attività svolta – racconta il libro “Agromafie” – è il c.d. “sindacato di strada”: un’automobile che raggiunge i luoghi dove i braccianti si assembrano, distribuendo volantini sui diritti dei lavoratori agricoli, invitando gli operai a contattare le sedi sindacali.