Il dossier sul caporalato nella Piana del Sele, relativo al biennio 2018-2020, “Rapporto Agromafie e caporalato” a cura dell’osservatorio Placido Rizzotto/Flai-Cgil restituisce un quadro agghiacciante rispetto al fenomeno dello sfruttamento e dell’illegalità dei lavoratori dei campi. Una fotografia dello scenario attuale delle maestranze, perlopiù straniere, costrette a lavorare in condizioni di servitù.
Caporalato nella Piana del Sele. Schiavitù contrattualizzata. Servi nei campi per pochi euro al mese. Tutto alla luce del sole, con tanto di busta paga. «Come ti chiami? Non lo posso dire. Da dove vieni? Diciamo dal Ghana (ride, perché non è ghanese). Quanti anni hai? Ho 25 anni, compiuti il mese scorso (settembre 2019). Perché non dici il tuo nome, resta tra me e te, questo colloquio rimane anonimo. Non lo posso dire a nessuno. C’è una ragione precisa? Perché se si viene a sapere che sono stato al sindacato a parlare della mia situazione lavorativa verrò licenziato immediatamente». È l’incipit d’un’intervista tra una sindacalista è un lavoratore dei campi di origini africane. Dire il suo nome sarebbe un rischio, per questo, nel dossier pubblicato dall’osservatorio “Placido Rizzotto” sul fenomeno del caporalato, viene chiamato “B.”.
DUE BREVI STORIE DI LAVORATORI AGRICOLI SFRUTTATI
Due storie di braccianti della Piana del Sele, costretti a rimanere anonimi, ché altrimenti il posto di lavoro rischia di saltare. Il primo, chiamato “B.”, intervistato da Anselmo Botte e da Francesco Carchedi nella sede della Cgil di Battipaglia; il secondo, chiamato “F”, e intervistato da Valentina Caliendo e Luca Fratepietro.
«Cosa vuoi sapere?» chiede B. agli intervistati. Le condizioni di svolgimento del lavoro, è questa la richiesta di Botte e Carchedi. Fare luce sulla situazione di sfruttamento che, nella Piana del Sele, fiore all’occhiello della rucola in tutto il mondo, avviene alla luce del sole. «Lo conoscete meglio di noi il fenomeno del caporalato. Dobbiamo solo lavorare. Sapete anche che quando vengono gli Ispettori del lavoro in azienda o la Polizia del Comune di Battipaglia o di Eboli non riescono a trovare mai nulla o solo piccole cose. Anche perché i datori sanno quando ci sarà l’Ispezione e così lo veniamo a sapere anche noi perché ci dicono di mettere i guanti, le mascherine antipolvere, le scarpe adatte per lavorare nei campi… » dice B., ragazzo 25enne di origini africane. Ma come si regolarizza tutto ciò?
«Se gli ispettori ci chiedono qualcosa dobbiamo dire che tutto è regolare, che lavoriamo 6 ore e mezza e che la paga giornaliera è di 52 euro al giorno per 22 giorni al mese. Invece lavoriamo quasi 30 giorni su 30 per più di otto ore al giorno e quando il tempo è buono anche 10, in particolare tra aprile e settembre. La paga non supera mai i 900 euro, di cui circa 500 o 600 in busta paga, alcuni mesi anche di meno. Per il salario in busta paga viene fatto il bonifico, l’altra parte è pagata in contanti. Siamo costretti a subire questa situazione per continuare a lavorare e inviare denaro alla famiglia, ai genitori, alla moglie e ai bambini per tutto. Di queste cose non parliamo mai con nessuno, solo un po’ tra connazionali e qualche volta qua al sindacato. Ci lamentiamo, ma non possiamo fare niente. Anche i sindacalisti possono fare poco, lo abbiamo capito. Ma sono gli unici che ci ascoltano, e laddove è possibile ci supportano» prosegue B..
Silenzio. Omertà. Perché in ballo ci sono le vite di figli e genitori. E allora s’accetta anche la condizione di schiavitù, barattata col permesso di soggiorno. «Stiamo zitti perché con il contratto possiamo avere il permesso di soggiorno. Senza contratto saremmo irregolari. Siamo sempre ossessionati dal rinnovo del contratto di lavoro, perché permette di stare in regola. È ciò che ci condiziona maggiormente, ed è la cosa che più ci umilia. Più della fatica ci umilia dover chiedere il permesso di soggiorno presentando il contratto di lavoro e per averlo si accettano tutte le ingiustizie. Sono quasi 10 anni che sono qua a Campolongo, vicino Eboli, sul mare. Abito con altri connazionali, siamo in quattro in due stanze e una cucina. Paghiamo quasi 100 euro a persona» conclude B..
La seconda storia arriva dal nostro continente. F. ha lasciato l’Ucraina, il suo paese d’origine, entrando clandestinamente in Italia dove voleva raggiungere la moglie, che lavorava ad Aversa, nel napoletano. Si è “regolarizzato” dopo otto anni, vivendo gli ultimi quattro in «un umido e malsano container infestato dagli insetti presso l’azienda del suo datore di lavoro» si legge nel dossier. Lavorava a nero, come custode, per un numero di ore fittizio. Avrebbe dovuto sorvegliare il deposito, ma il suo padrone lo chiamava a qualsiasi ora del giorno o della notte per fargli scaricare la merce. E il salario? Non superava i 1.000 euro, complessivamente, per entrambi. Poi la tragedia: un improvviso infarto e il ricovero a Salerno.
Sono stati costretti a cambiare lavoro. Hanno scelto i campi. F. s’arrangia, fa qualche giornata nelle campagne perché a sessant’anni, e col cuore malato, non può sforzarsi. La moglie è diventata una bracciante agricola in un’azienda della Piana del Sele. Raccoglie frutta: mele, mandarini e altro, a seconda della stagione, arrampicandosi sulla scala a cinquantasette anni. Si sentono anche parte di questa comunità, l’Italia, che li ha accolti. E inviano ancora denaro in Ucraina. «Questa morale, questa correttezza di fondo, questo rispetto che i migranti nutrono per il nostro paese è proprio quella che datori di lavoro amorali tendono a torcere a loro favore, abusando così della condizione di oggettiva vulnerabilità che contraddistingue i migranti».