Ieri ho notato la targa apposta al muro per ricordare l’autoscuola e don Benedetto Petrosino. Sobria, di poche parole, quasi mimetizzata nel resto del muro, un sussurro al passante più che un richiamo. Iniziativa insolita e benvenuta perché, con l’Arca dei Marchi, ho spesso avuto difficoltà a collocare sulla mappa le vecchie aziende, i vecchi negozi. La targa mi ha riportato alla mente le pietre d’inciampo dell’artista tedesco Gunter Demnig, un meraviglioso progetto che appone un piccolo blocco quadrato di pietra, ricoperto di ottone, davanti la porta della casa nella quale ebbe ultima residenza un deportato nei campi di sterminio nazisti, blocco che ne cita dati anagrafici, di deportazione e morte.
Tolto l’orrore e il dolore che l’hanno originato, ho sempre pensato fosse – con i necessari accorgimenti – un progetto trasferibile in un ambito più ordinario, ad uso di uomini verso cui la comunità mostra un bisogno di memoria. Sarebbe bello camminare e lungo il marciapiede cogliere dove viveva Ciccio Ciancio, mitico barbiere delle comprese. Come mi piacerebbe sapere dove ha vissuto il Cantoniere, e ricordare i luoghi di Napoleone e le sue nucelle, di Lorenzo Rago e di Pasquale Lupinacci, tanto per citare nomi del mio pantheon. Un blocchetto 10×10 cm, nessun fastidio al mondo. E non importa che nel frattempo siano cambiati palazzi negozi strade: lì, esattamente lì, entro coordinate esistenziali prima che geografiche, c’è stato un uomo che qualcuno ricorda e lo ricorda senza titoli, senza parole altisonanti, puro punto che resta nello spazio, laddove il tempo è trascorso. Io per esempio sul blocchetto di Giampaolo Umilio sosterei un po’, anche solo per tentare di riprovare la sua presenza di quegli anni che ci videro amici e sodali d’intelletto.
Devo dire, quella targa a Petrosino mi ha fermato. Mi ha svegliato, in qualche modo, dalla vita quotidiana, che non ricordava che non c’è più don Benedetto. Di volto rotondo e rubizzo, ad incontrarlo rivedevo ogni volta mio nonno, stessi occhi chiari e dolci, un nasone così straordinariamente simile a quello della famiglia Viscido, orecchie carnose e lunghe. Aveva pure una lieve incurvatura in avanti, non so se per sopravvenuta anzianità, e una leggera divaricazione di piedi, e nella mia fantasia oscillava tra un ruolo nei film di Charlie Chaplin e uno nei film di Martin Scorsese, per quanto sarebbe stato scartato per la “faccia buona”, come il Verdone di “Troppo forte”.
Faceva parte del mio paesaggio naturale, don Benedetto. Bambino andavo a piedi alle De Amicis, e passavo di là. Da ragazzino me la facevo a piazza Madonnina e passavo di là, più tardi avrei trovato lavoro a Inteli e passavo di là. Mi ha visto crescere, don Benedetto, e alla fine il mio rapporto con lui era quel marciapiede. Decine di anni, migliaia di incontri, saluti veloci o, quando la fretta delle nostre vite consentiva di fermarsi, lo scambio “buongiorno come state” “sto bene e tu” a cui rispondere con vario grado di confidenza e di impegno, per incontrare ogni volta quel suo approccio che riesco a definire solo come ruvida bonomìa. Fiocco finale, saluto a mio padre, implicito riconoscimento generazionale, una sorta di richiamo di sangue e di tempi andati, che in qualche modo mi facevano sentire collocato in una storia. Che don Benedetto gestisse un’autoscuola era un aspetto trascurabile, per me. Poteva benissimo avere la bottega dei fiori a un paio di metri di fianco. All’inizio, almeno. Col tempo però quell’autoscuola costituiva un richiamo e un rimprovero: la patente. Io ho sempre odiato le macchine. O meglio, ho sempre odiato l’idea di guidarle. Strano, vero? I ragazzini non vedono l’ora, di guidare. Io ho imparato a 37 anni e solo perché la vita mi aveva assestato qualche calcio in culo. Per farvi capire: provavo angoscia a sedermi al posto guida a macchina ferma. Chissà perché, ma era una cosa così profonda che la spiegazione più razionale che mi son dato è di essere la reincarnazione di qualcuno morto alla guida.
Potete capire con che spirito mi presentai un giorno all’Autoscuola Petrosino. Con la stessa gioia di quando si va dal dentista, tipo. Ora a quell’uomo che il marciapiede mi poneva sul cammino ogni giorno chiedevo il miracolo di prendere uno psicopatico e farne un guidatore – non bravo eh, che nessuno si è mai sognato di esserlo, qui c’è gente realista. Chiesi di parlare con lui: per il mio problema ci voleva il primario. Spiegai sintomi, imprecai demoni, ma don Benedetto non si impressionò, come un vecchio esorcista che ne abbia viste tante. Mi rassicurò molto, ne fui rassicurato abbastanza. Volle farmi una guida – non so se allora le facesse ancora o avesse fatto un’eccezione con me. Colse la gravità del caso e capì che occorrevano forze fresche: mi affidò a suo figlio Gaetano, peraltro mio vecchio amico, poi al sergente di ferro che mi mise in riga. Ricordo ancora il giorno d’esame della prova pratica, al ritorno. Mi guardò in silenzio e sorrise, senza chiedermi niente ma sapendo tutto, forse ammirava la sua Cappella Sistina. Stravolto dalla tensione che ancora mi innervava, gli feci un rapido sorriso, lo toccai a un braccio, e lo ringraziai come un naufrago in balia dell’oceano tratto in salvo da una nave.
Da allora i nostri incontri lungo il marciapiede presero un tono diverso – come di due conoscenti che abbiano passato un guaio insieme e ne siano usciti con uno strano senso di amicizia – e tuttavia le nostre regole d’ingaggio non cambiarono di una virgola: saluti veloci o brevi scambi, la vita aveva richiuso la falla. Alla notizia della sua morte ho pensato a lui e ho sorriso – nel tempo ho capito che quella istintiva reazione in me significa benedire e lasciare andare il defunto, con gratitudine. Ho pensato al bene che mi ha fatto senza saperlo, esercitando semplicemente la sua umanità e il suo mestiere. A me come a tanti, migliaia di ragazze e ragazzi che sono entrati in quella porta timorosi e ne sono usciti gioiosi del passaporto per la libertà.
Se nella vita contano quelli che chiamo “uomini deviatoi”, persone poste lungo i binari della vita a cui fanno fare un cambio di passo o di direzione, persone che magari compaiono e stazionano per pochi mesi, addirittura giorni, giusto il tempo di fare quello che la sorte o il cielo o la casualità ritengono necessario per te – darti una dritta su un posto di lavoro, farti conoscere la donna giusta, cogliere un tuo problema di salute, cose così, cose piccole ma silenziosi inneschi a una deflagrazione esistenziale – allora don Benedetto è stato un uomo di snodo fondamentale per me. Non gliel’ho mai detto, e non l’ho mai detto neanche a me stesso prima, prima di essermi fermato a guardare quella targa.