Era il 2016 quando il battipagliese Alberico Abate e Pietro Paolo De Luca, entrambi uscenti da differenti progetti musicali, s’incontrarono e decisero di far coesistere i due mondi da cui provenivano, il rap e il metal, così da creare una proposta inedita per il pubblico italiano: i The Hate Parade, Un gruppo che fa dell’empatia con il pubblico il loro punto di forza, andando ad affrontare i temi più disparati nei loro lavori. La formazione attuale vede Alberico (vocalist) e Pietro Paolo (chitarrista) assistiti da Emanuele De Santo (batteria).
– Un progetto il cui stile, l’Alternative Rap Metal, è molto particolare. Parlateci un po’ dei The Hate Parade.
A.A.: Abbiamo mixato i nostri background. Pietro (l’altro fondatore, ndr) viene da un background più alternative e dal rock, mentre io dall’hip hop. Il connubio è nato lì.
– Un gruppo nato per pura coincidenza: i due membri fondatori stavano archiviando altre esperienze musicali. The Hate Parade è come fosse nato dalle ceneri. Da musicisti, come si trova la forza, gli stimoli, quando chiudi altre collaborazioni e ricominci da zero?
A.A.: Sicuramente nelle persone con cui ricominci, io e Pietro eravamo amici da un po’ ma non avevamo mai condiviso la passione per la musica. Non sapevamo di avere questo tratto in comune. È stato importante per noi e per chi è venuto dopo, come Emanuele, trovare dei musicisti con tanta voglia di fare.
– Inizialmente la vostra proposta è stata caratterizzata da cover di gruppi come Rage Against The Machine e Limp Bizkit. Qual è il brano non inedito che caratterizza e rappresenta maggiormente l’idea artistica dei The Hate Parade?
A.A. e E.D.S.: Sicuramente Killing in the name dei Rage Against The Machine.
– Nascono poi i primi singoli: Shot through the hell e Goin’ home. Cosa volevate esprimere e comunicare a chi vi ascoltava con quei lavori?
A.A.: Shot through the hell è un pezzo più politico e di denuncia sociale, Goin’ home parla invece di vicende più personali. Volevamo esprimere la varietà nelle nostre tematiche, ci teniamo ad avere uno spirito che parli di noi per creare empatia con le persone, e uno spirito che ricalchi molto i gruppi a cui ci ispiriamo.
– Avete deciso di indirizzare la vostra produzione sulla lingua inglese. Non temete che ciò possa rappresentare una barriera tra voi e chi vi ascolta?
A.A.: In Italia sì, c’è questa paura che andando a suonare magari può non arrivare il messaggio come dovrebbe. La nostra è però musica rivolta a chi pratica una certa ricerca. Inoltre noi puntiamo all’internazionalizzazione, dove c’è un pubblico più sostanzioso.
– Avete detto che le influenze artistiche della band, oltre Rage Against The Machine e Limp Bizkit, attingono anche da Red Hot Chili Peppers, POD, Korn e Saliva, ma singolarmente invece, quali sono le vostre influenze?
A.A.: Le mie influenze vengono dall’hip hop. Ultimamente mi vengono in mente NF, rapper americano, Mike Shinoda dei Linkin Park, su cui ho basato molto del mio studio sulla metrica. Oltre questi gruppi che abbiamo citato anche Fabri Fibra e Mondo Marcio e Machine Gun Kelly.
E.D.S.: Nel 2015 ho avuto una cover band dei Red Hot Chili Peppers, quindi Chad Smith è stato molto influente nella mia vita, come anche i Muse. Le mie influenze provengono dall’alternative rock e l’alternative metal. Quando sono stato contattato dalla band non ho prestato molta attenzione ala proposta, ma all’ascolto di Shot through the hell mi sono reso conto che era proprio la band che stavo cercando.
– Quando avete capito di voler fare musica nella vostra vita?
A.A.: Tra il primo e il secondo anno delle Superiori, con i pezzi scritti sul banco. Lì ho capito che c’era qualcosa che mi muoveva verso ciò che faccio. Ciò si rinnova sempre ogni volta che ascolto le persone, le loro storie. Voglio fare musica per arrivare alle persone.
E.D.S.: A sei anni mi incuriosii Nicola Calluri, batterista degli Heimdall, una band metal salernitana. Un giorno mi invitò a provare la batteria e fu amore eterno. Chiesi ai miei genitori di prendere lezioni, e dopo aver mollato per un po’, grazie alla mia professoressa di italiano del liceo, ci fu di nuovo un colpo di fulmine. Adesso per me rappresenta qualcosa per esprimere me stesso.
– The Hate Parade è una formazione giovane nata appena nel 2016. Nonostante il poco tempo, attraverso una massiccia esposizione live, siete già riusciti a ritagliare una vostra piccola fetta di pubblico. Secondo voi cosa sta alla base del rapporto musicista/pubblico che permette di far arrivare appieno il progetto a chi ascolta?
A.A.: Ascoltare molto il proprio pubblico. È una cosa che molti non fanno, e a mio parere sbagliano. Ascoltare le loro richieste, quello che vogliono, ciò che potrebbe rappresentare un loro sfogo. È fondamentale il rapporto con i fan, specialmente quelli più fedeli. Ciò che vedo spesso è una barriera tra artisti e pubblico. Bisognerebbe riconoscere ai propri fan la loro importanza.
E.D.S.: È importante anche il loro feedback sulla resa live del sound. Anche chi non ti conosce può darti un consiglio, positivo o negativo, purché sia costruttivo.
– Dite che gli interessi principali del vostro gruppo sono, oltre la musica, il pacifismo, la libertà, l’uguaglianza e l’anti-fascismo. In un periodo storico in cui pochi sono gli artisti che prendono posizioni nette, esporsi così su un concetto politico secondo voi potrebbe essere deleterio?
A.A.: No, se espresso bene e con cognizione di causa. Noi non vogliamo fare frasi fatte, durante i concerti ogni tanto ci fermiamo e spieghiamo il perché di vari concetti, cosa che non fanno alcuni politici. Ricordo un concerto in cui mi presi qualche minuto per spiegare la mia opinione sull’ascesa di Matteo Salvini. Ricordai l’importanza di non cadere negli slogan e leggere e documentarsi di più. È importante non dare peso a lotte portate avanti dai politici per scopi personali.
– Qual è secondo voi la ricetta perfetta per un brano in formato Hate Parade? E qual è il segreto per far coesistere in un unico progetto quattro teste pensanti, come nel vostro caso?
A.A.: Si condivide un’idea, che è la ricetta iniziale del pezzo, e gli si aggiunge rabbia, sfogo, riferimenti storici o riferimenti personali, in base al tipo di canzone. Poi si lavora tutti insieme restando concentrati su cosa vogliamo esprimere. Ogni strumento ha un suo messaggio all’interno della canzone.
E.D.S.: Ogni settimana proviamo i pezzi che abbiamo in lavorazione e ognuno apporta la sua idea, che viene messa nel cassetto e su cui poi si ritorna a tempo debito. Con questa band c’è la voglia di “giocare” insieme e di approfondire il rapporto anche fuori dalla sala prove.
– State lavorando a nuova musica? Cosa potete anticipare?
A.A.: Abbiamo in cantiere un album con circa dieci pezzi, ne abbiamo già otto pronti, tra cui i due già pubblicati e registrati nuovamente. Creeremo quella che sarà la nostra proposta verso le etichette discografiche e di booking.