di Antonio Vacca
Riparte il Teatro a Battipaglia. Naturalmente parliamo del ‘Sociale’ Aldo Giuffré, giovane creatura tarpata dal Covid, che aveva mosso più che i primi passi. Nata dall’ ostinata dedizione dell’attore nostrano Vito Cesaro – supportato da volitivo entourage – ci aveva regalato tre stagioni (e mezza, per il suddetto motivo virale) animate da nomi di spicco che deliziarono i cittadini appassionati: Casagrande, Cirilli, gli Arteteca, Milena Miconi o la Caldonazzo, Rivieccio e Lo Verso come Vanessa Gravina o Debora Caprioglio, sicuramente dimentichiamo tanto.
Ed è parso liberatorio, lo scorso settembre, ritrovare la scena con un “adattamento” scorrevole e ridanciano, da Ettore Romagnoli, rigoroso letterato che fra Otto e Novecento molto dedicò al mondo greco classico. “Il carro di Dioniso” con le sue reminiscenze elleniche un po’ tendeva la mano ad una pièce, Il povero Pluto, che chiuse la Stagione ’18-’19. In comune, il nucleo attoriale ‘home made’: lo stesso Cesaro (anche regista), il puntuale Claudio Lardo e la già Miss Italia Denny Mendez, ormai un piccolo clan drammaturgico rodato, cui hanno fatto corona attori più giovani e di vivaio (il Giuffré è anche Scuola teatrale; per i baby c’è addirittura Gioco Teatro).
Il modulo narrativo rimandava in parte a quello che sarebbe, manco a dirlo, teatro sul teatro. Magister, Pirandello. Ma qui i toni erano leggeri, al ‘Nobel’ siciliano univa solo il territorio, proprio quello dell’Isola natìa, che fungeva da ambientazione, come scorcio di Magna Grecia. L’ilarità spuntava, dunque, dal tentativo d’allestimento spettacolare d’una squinternata Compagnia con il capocomico Fliace, velleitario direttore d’un ambizioso dramma su Didone, cooperato da due improbabili colleghi, l’attor giovane Corbezzolo (Christian Salicone), attanagliato più dalla fame che dal furore artistico, che finisce suggeritore del Capo, dando la stura ad una sequela di doppi sensi da avanspettacolo semipecoreccio; ed il diàfano Cotenna cui Massimo Pagano conferisce toni equilibrati evitando che il ruolo di effemminato litigioso scada parodisticamente. Poi ovvio, c’è la storia d’amore e qui subentra una Mendez prestante per la quale spasima Cèrilo (Claudio Lardo) che si fingerà dio dell’ Olimpo per impadronirsene.
La vicenda si scioglie senza lungaggini e con qualche inevitabile ‘modernismo’ che smussa l’ambientazione classicheggiante: un po’ di dialetto casereccio, la formazione del Napoli, una canzone di Morandi, insomma gli inevitabili tratti d’attualizzazione (come spesso, nell’Operetta) infiocchettati da un passaggio in stile ‘musical’ ben retto da Lardo stesso. La serata strappa gli applausi ma pure gli intenti. Prima dello spettacolo, tratteggiato il programma prossimo stagionale che fra novembre e maggio, uno o due spettacoli mensili, affronterà proprio Pirandello, Shakespeare ma anche commedie di piacevolezza o frizzanti, per esempio con Milena Vukotic o la Laurito. Non mancherà il localismo carnevalesco con la “Zeza” di Cesaro, insomma il Giuffré produce ed autoproduce. Sperando che, almeno a ranghi ridotti d’imposizione sanitaria, la gente torni ed esaurisca i posti disponibili. Questa lodevole istituzione non sembrava raccogliere i meritati numeri di pubblico nemmeno prima del fermo pandemico. Ed in tralice, Vito Cesaro salutando gli spettatori in chiusura, ha lanciato delicati riferimenti alla poca attenzione che a questa dimensione culturale arriva da brani della città. Ci aspettiamo una Stagione che ci riconcilii, col teatro e non solo. Pur nel distanziamento. Che si chiama ‘sociale’; proprio come il Giuffré, guarda un po’.