È solo da poco che ho notato come il mio camminare per le strade di Battipaglia cerchi appigli di bellezza lungo la via. Negli ultimi tempi, poso lo sguardo su certi fregi, su certi vecchi infissi di legno, su dettagli architettonici che provo a indovinare degli anni Trenta, o degli anni Sessanta, perché ogni epoca è arrivata a Battipaglia, fosse pure solo come detrito.
E sugli alberi, che sono “costruzioni” sempre perfette, pure piantate al centro dell’Inferno. Sulle piante: balconi meravigliosi si offrono con nonchalance a chi sa alzare gli occhi, belli di un’ordinata veste o al contrario selvaggi come capi di Vivienne Westwood e vien voglia di citofonare ai proprietari, gridare “Bravi!” e scappare, gesto da ragazzini ma per incoraggiare.
E i cactus, poi. Giri angoli e silenziosi giganti spinosi montano la guardia a cancellate scrostate, sempre un pò sbilenchi, come alticci. Quelli sui balconcini, a volte così minuscoli che li fanno sembrare pitbull nei trasportini, non ne parliamo: inteneriscono, e preoccupano, pure, perché ti interroghi su come svilupperanno raggiunto il balcone di sopra, ma poi ricordi la lenta crescita di queste succulente e capisci che non arriverai a vederlo.
Le ringhiere dei balconi vecchi, poi. Son diventato esperto, maturando persino una stramba teoria: il degrado politico, sociale, culturale, morale dei nostri tempi poteva essere previsto seguendo l’evoluzione di stile dei parapetti ai balconi. Era già scritto tutto lì, bastava guardare.
Questa continua opera di rimbalzo, che spesso richiede sguardi alti – i terrazzi! I terrazzi! – e più in alto arrivano meglio si sta forse perché si lambisce il cielo, questo zigzagare, permette anche di evitare gli occhi della gente, il volto di carta velina sulla sofferenza persino sgomenta di chi si credeva salvo già solo per il fatto di vivere in Occidente, quell’Occidente cristiano, quell’Occidente dei diritti universali, quell’Occidente che pensava di abolire per scienza il dolore e ora si ritrova a non sapere nemmeno più dargli senso – perciò insopportabile anche in minima parte – e il respiro grosso, la paura sotto pelle del sangue sazio che teme di essere alla fame – e Battipaglia è stata più che mai Occidente, è stata progresso, è stata sazietà.
Insomma, a girare per Battipaglia mi sento come l’Uomo Ragno che avanza tra i palazzi lanciando ragnatele a destra e sinistra. Altra soluzione non ho trovato per vivere in questa città che non sia l’appoggio a qualcosa che regge, che è rimasto e resiste, per scansare le pozze. È una ricetta minima, ammetto, d’emergenza, è la scatoletta di tonno quando si ha il frigo vuoto. Il frigo pieno sarebbe questo: ognuno pianta al proprio palazzo edere, buganville, gelsomini, libera scelta. Ognuno di noi, tutti insieme, come se Battipaglia si tirasse la coperta addosso, una coperta di rampicanti per nascondersi al buio dei tempi, e degli spazi, ovviamente.
Come pure – perché no? – di risposta al cratere mentale di quanti ci hanno eletto a Monnezza City. Una protesta silenziosa, qualche anno e la città scomparirebbe agli occhi. Ci aprirebbero i Tg, con una cosa del genere. Una auto-Pompei, ma al posto dei lapilli le foglie, per modello le antiche città sepolte guatemalteche o cambogiane, fermo restando il nostro brulicare nascosto, come formiche, che forse sono più felici di noi, di certo meglio organizzate.
Il frigo pieno è una Battipaglia che si fa Cesare mentre si copre con il mantello, per non assistere all’offesa di coltelli un tempo figli, perché il male che ti uccide lo hai cresciuto tu, sempre, e Battipaglia in questo non è stata diversa: potrà coprirsi ma mai assolversi.