La terza parte del racconto C.C.C.P. (Calmo Comodo Colpaccio Proletario). Qui la prima parte e la seconda.
8.
La mattina del dodici luglio ci sono quaranta gradi. Da qui, dalla vista panoramica della pensione Stella, il porto è una carcassa sventrata. E uomini, mezzi e colori fanno da insetti che ci si accapigliano dentro.
Dopo quattro giorni di carico la nave è ormai pronta, il pontile scintilla di travi da trentatré metri e container imbottiti di lamiere.
Sono sul balcone, binocolo agli occhi e portatile sul tavolino. Alla porta del gabbiotto dello spedizioniere c’è un andirivieni di gente varia. Entrano ed escono manovratori, autisti, impiegati a maniche rimboccate.
C’è Di Saverio col panciotto, poi. Il ragioniere risparmiato. Suda e gira in tondo, un fascio storto di fogli tra le mani. Districarsi con le pratiche doganali non è mai stato suo mestiere. Senza di me – lo ammettesse – è un uomo perso.
Vedo avvicinarglisi Leopoldo Pennino, che in onore del cognome è alto sì e no un bancone di rosticceria. Lo saluta, gli stringe la mano. Di Saverio, che non gli ha mai lavorato vicino, nemmeno ricorda che è stato trombato. È il motivo supremo per cui, lì, non posso esserci io.
Non sento cosa dicono, ma conosco il dialogo. Non per niente l’ho pensato io.
Gli chiede, Pennino: «Oh, ma tutto a posto? Se ti serve aiuto con le scartoffie non farti problemi. Ormai, a furia d’interessarmi delle consegne che tardiamo per intoppi doganali, sono più ragioniere che venditore.»
Quell’altro un po’ ci pensa, ma annaspa troppo per rifiutare. Annuisce grato, frenetico. Rinfrescato.
Raggiungono il cofano di un’auto in sosta, sparpagliano i documenti. Pennino l’ho istruito, sa davvero cosa controllare. Fa l’occhio clinico su questa e quella carta, punta dita, suggerisce cose.
Poi, ops, un gomito maldestro e vola via un po’ tutto. Appunti, bolle, moduli, dichiarazioni, contratti. E la busta, ancora aperta, con le copie della fattura.
Soprattutto quella.
Con l’altro chinato a raccogliere il resto, per Pennino è un niente prenderla, aprirla, sostituire le fatture con le copie che aveva in tasca. Piegate, pronte, perfette.
Poi si avvicina al vecchio con la busta in mano, fa la faccia complessa.
«Ma magari vuoi che ci vada io, a sbrogliarmela con l’ufficio doganale? Cioè, non metto in dubbio che… Ma se non l’hai mai fatto, sai com’è: la massa, gli incoterms, la nomenclatura combinata… Ci si mettono di puntiglio, tutto un manicomio di domande tecniche. Poi, al minimo dubbio, bloccano il carico.»
Di Saverio è fasciato d’ansia, non può fare altro che accettare. Consegna a Pennino la busta, gli altri documenti, tutto. Poi siede all’ombra a tamponarsi il sudore.
In realtà le nuove fatture, quelle che ora arriveranno al cliente canadese, sono più o meno identiche a quelle sostituite. Non fosse, insomma, che le ho stampate io. Per carità: valide uguali, tirate comunque fuori dal programma contabile della Maiadero.
L’unica differenza è che è cambiata la banca d’appoggio.
Tempo un mese, e cinque milioni di euro voleranno da Toronto alla stitica Cassa Commerciale del Golfo, dritti sulle coordinate del “nostro” conto.
Probabilmente saranno intercettati, segnalati, controllati. Non ci sarà accredito senza un confronto incrociato fra cliente e fornitore. È la prassi, per importi del genere.
Ma a noi, in fondo, del futuro remoto ci frega poco. È quello prossimo, che va tenuto d’occhio.
Mezz’ora dopo la partenza del cargo una copia di quella fattura, autenticata dal visto doganale, arriverà regolarmente in banca, nelle mani di Fiorenzo Porri. E lì, grazie all’anticipo su crediti concessoci nei giorni precedenti, diventerà denaro liquido e immediato.
Quattro milioni di euro; ovvero, l’ottanta per cento di cinque milioni.
A quel punto resterà un unico, risolutivo passaggio: chiamare in agenzia e prenotare i biglietti. Volo per Malpensa di venerdì prossimo; ripartenza – definitiva, assoluta, a senso unico – l’indomani alle dieci.
Giusto il tempo, tra sbarco e decollo, di un investimento spicciolo tra i palazzi milanesi.
9.
L’ultimo giorno mi alzo all’alba.
Il guardiano della pensione mi ha dato le chiavi della camera sette, l’unica con la vasca. La usa due giorni a settimana un rappresentante di detersivi, per il resto è sempre libera.
Sono ore, poche ore. Un gioco di lancette che mi separa dall’essere un uomo onesto a qualcosa di definitivamente diverso. Non necessariamente peggiore. Non necessariamente migliore.
Volendo potrei tornare indietro. Potremmo tutti.
Maiadero inclusa, però.
Nello sciabordio d’acqua tiepida reggo un foglio. Il solito foglio. Cioè, lo stesso da mesi. Non ho voluto farne altre stampe.
La carta si è sgualcita e l’inchiostro sbiadito. Sto attento a non bagnarlo con i polpastrelli.
Il titolo, “Appunti della Capitana”, ce l’ho messo io a penna. Il resto fingo solo di leggerlo. In realtà lo conosco a memoria.
“In trent’anni di attività la Maiadero Acciai ha fruito di un sostegno statale illimitato, semplicemente spacciando trasferimenti di sede e sostituzioni di macchinari per ampliamenti e innovazioni produttive. Menzogne a raffica che le hanno fruttato esenzioni dalle imposte, contributi a fondo perduto, finanziamenti pubblici a inesistenti progetti di ricerca e sviluppo.
In totale, decine di milioni scippati alla collettività; e da lì trasferiti in lussi, palazzi, investimenti personali in borsa. Le stesse somme che nelle intenzioni di chi le ha erogate servivano a creare benessere e occupazione, nelle azioni di chi le ha incassate sono diventate arricchimento privato e pubblica disperazione.
Solo negli ultimi tre anni sono stati già buttati per strada cinquanta dipendenti, e tutto per consentire ai soci di mantenere inalterato il livello dei guadagni da destinare a operazioni extraaziendali. Cinquanta famiglie sul lastrico per chiusura o riduzione arbitraria di questa o quella linea di produzione, semplicemente per aver deciso che alcuni articoli venduti fruttavano di più acquistandoli piuttosto che fabbricandoli.
Tutto in totale sprezzo degli impegni assunti con l’incasso dei contributi, dei piani di investimento e innovazione promessi nelle domande di agevolazione, delle rassicurazioni sull’esponenziale incremento di manodopera che ne sarebbe derivato. E, soprattutto, nella più completa, totale, assoluta impunità e assenza di controllo.
Perché quel detto che il pesce marcio puzza dalla testa è vero. Questo pare sempre più un paese dove puoi fare i giochi sporchi pur rispettando le leggi. Semplicemente perché spesso, a chi le scrive, la penna gliela mette in mano chi le infrange.”
Resto qualche attimo sulle ultime righe. Poi respiro forte. Annuso.
Penso.
In questo bagno c’è una finestra, dà su un trittico di peschi.
Vedo che a tenerne socchiusa un’anta l’albero più prossimo spinge per appoggiare un ramo corto sul davanzale. L’aria lo fa ballare e le foglie accarezzano il marmo.
Chiudo gli occhi, allora. Sono un insetto che ci dondola sopra. Intuisco una parte minuscola di mondo, ma ne sento la risata intera. Si prende gioco di me, di noi, dell’importanza che ci diamo nel girare delle cose. Del peso che ci sentiamo dentro, e che immaginiamo segni orme profonde e dolorose su ogni tratto di strada che affrontiamo.
Basterebbe poco: semplicemente, che io e quel sussurro frondoso ci allontanassimo dall’inquadratura di noi stessi. Che ci defilassimo fino a essere un punto in un’immensa panoramica da satellite nello spazio.
Eccoci là, allora: la verità. Un infinitesimo nel brulichio di miliardi su miliardi di azioni simultanee. Una pochezza piatta, a due dimensioni, poco più che palpabile.
È questa l’evidenza socioastronomica del momento: nel caos più assordante, non puoi aver paura di far sentire il tuo rumore. Perché, semplicemente, non ne fai. Non più, almeno, di questo ramo di pesco adagiato sul vento.
Stendo il braccio, lascio che il foglio scivoli sul tappetino.
La Capitana, già.
Quella che non prendeva mai soldi, per le cause di lavoro. Ed erano le uniche che accettava.
Viveva d’altro, lei: qualche ripetizione di latino, l’affitto di un garage dei nonni, servite ai tavoli delle osterie.
«Oppure fatemi arrivare qua un operaio con la villa in Sardegna e la Lamborghini» rideva, «e giuro che gli sfilo una parcella di sei pagine.»
Anche il suo studio era diverso dagli altri. Lì dentro non si annusavano profumi costosi, né la seta degli abiti buoni. Né l’olezzo dei signorsì, dell’omologazione, dell’ambizione. Lì, a qualunque ora, gli odori erano altri. Erano quelli dei picchetti alle fabbriche, della terra bagnata, della birra calda, delle grigliate con un cencio di legna e due salsicce rubate.
Quello che ho trovato nei suoi file dice che ci stava lavorando da mesi, alla questione Maiadero. Aveva ricalcolato bilanci, interpretato relazioni, incrociato verbali, ritagliato quotidiani. Era pronta, ormai, per consegnare tutto alla Procura.
Poi, poco dopo Capodanno, la Capitana l’hanno trovata seduta alla scrivania. Il busto riverso, la chioma sparpagliata sotto la bolla di luce della lampada da tavolo.
Qualcuno che era lì ha detto che pareva sorridesse. Quel qualcuno, il solito, che lo dice un po’ di tutti.
Il medico ha parlato di un’endocardite infettive. Bizze di quella valvola mitrale forse già stramba dalla nascita, anche se i sintomi seri erano venuti fuori solo da poco.
Pare che per un po’ ci avesse pure combattuto: il minimo indispensabile, giusto per far tacere familiari e amici più apprensivi. Poi, giacché al mondo c’erano da sistemare cose più importanti, aveva deciso di fottersene.
Non ci parlavamo più, io e lei. Da vent’anni fingevamo di non esistere l’uno per l’altro. Conseguenza idiota di un cumulo di scazzi, rancori, parole pesanti. Roba che il tempo dovrebbe stemperare, e invece finisce per rafforzare.
Mi sono tornate in mente scene di lei ragazzina, quando diceva che la morte migliore è mettersi sereni a letto, sbadigliare, addormentarsi e non risvegliarsi mai più.
Ci è andata vicina, allora.
Lei, la Capitana, mia sorella, magari non le è riuscito di morire nel sonno. Ma almeno è morta di un sogno.
10.
Quando i due gli piombano in ufficio Fiorenzo Porri fa le facce da prima e dopo la cura.
Inizialmente è seccato, poi scatta in piedi quasi sull’attenti. Il ginocchio, nella foga, gli sbatte sotto lo spigolo della scrivania.
«Dottor Iannone! Ma che sorpresa, a che debbo l’onore?»
Gli tende la mano, l’altro lo guarda col viso imprugnito. Ricambia il saluto con una stretta molle.
«Cioè… ci conosciamo?»
«Sempre in vena di scherzi, vedo. Ottimo, ottimo. L’allegria è il sale degli affari.»
Dietro l’uomo grosso ce n’è un altro filiforme. Rigido, composto. Abiti da indiano. Regge in mano una busta aperta. La porge al direttore.
«Perdoni, signore» dice. «C’è stato sicuramente un equivoco, signore. Ci è arrivato questo estratto conto, parla di un accredito per anticipo su fatture. Quattro milioni di euro, signore.»
«Esatto, quattro milioni. L’ottanta per cento di cinque; il resto a fattura incassata. Meno gli interessi, ovviamente. Vi aspettavate una cifra diversa?»
«No, signore. È che noi non abbiamo nessun conto in questa banca, signore.»
Porri fa una smorfia, gli occhi a vanvera. Cerca di capire dov’è lo scherzo.
«Come sarebbe, che non avete nessun conto in questa banca?»
Senza volerlo il tono della voce gli si è alterato, arriva oltre la porta aperta. Improvviso, in sala, il silenzio assoluto di clienti e impiegati.
«Diretto’, capiamoci: ci sfottete o avete problemi mentali?» Il vero Marco Iannone si agita nel doppiopetto grigio, i ricci molli gli ballano in fronte. «È come vi dice il mio assistente, punto. Non so che è successo, qua dentro, ma avete cinque minuti per azzerare questi numeri. Al sesto minuto chiamo i carabinieri, vi faccio licenziare e sbatto questo buco di banca su tutti i giornali.»
Il direttore trema, i palmi alzati come per una rapina. Esce dalla stanza, attraversa l’atrio a passetti da geisha. In testa ha l’inferno: pensa se è tutto reale, a che ora ha tirato l’ultima pista, se per caso era tagliata male o avrà sbagliato a mischiarla coi gin tonic.
I due gli vanno dietro a falcate rapide, appaiati al fotofinish. Sguardi di gente in coda: fissi, incuriositi. Divertiti.
Arrivati allo sportello quasi sbatte via il cassiere. Tira via la poltroncina, ci si siede, non sa neanche lui per controllare cosa.
«Io, io… Magari l’ultima volta c’è stato un disguido, forse non ci siamo capiti… Comunque non è un problema, annullo subito l’anticipo e… e…»
Secondi di gelo, un ticchettio isterico di tastiera. E ancora, e ancora. Poi il blocco totale: occhi sbarrati sul video, il pallore irreale da manichino smontato.
«Che succede, signore?» Il vero Samir muove appena le labbra, le braccia conserte ad altezza pancia. «Qualche problema, signore?»
Il sudore che inonda Porri, adesso, è una doccia fetida fatta con tutti i vestiti.
«Non ci sono più» riesce a balbettare.
«Che significa “non ci sono più”?»
«Un… un bonifico.» Si accascia, respirando a mugugni. «Quattro milioni tondi, alla casa d’asta Sotheby’s.»
Iannone tira fuori un’agilità inconsueta, fa due balzi, gli va alle spalle. Fissa il monitor a narici larghe.
«E quindi, che state aspettando?» urla, scuotendo la sedia. «Bloccatelo subito»
«Non posso. È già stato accreditato.»
«Allora chiamate l’altra banca e dite di restituirlo immediatamente. È evidente che è un furto.»
Porri chiude gli occhi, li stringe. È una palla di niente.
Samir capisce e si avvicina a Iannone.
«Forse non è così facile, signore. Se l’acquisto a quest’asta è stato fatto a nome della Maiadero e pagato con i soldi della Maiadero, apparentemente è tutto legale, signore.»
Poi, sarà il rammarico, l’emozione, ma per un istante gli balena in viso un ghigno leggero.
«Può solo fare una denuncia e aspettare. Ma, chiunque sia stato, credo che non lo prenderemo più, signore.»
Da fuori, per la prima volta, il giorno infrange le regole e scava tra i vetri.
E improvviso – beffardo – sbuca un cono di sole.
11.
Atterriamo all’aeroporto di Tocumen a mezzogiorno. L’aria è fresca per le ultime piogge, sulla pista c’è la luce piena del cielo spazzato.
Orietta ha finalmente un vestito nuovo, suo figlio per mano, il trapianto di rene già prenotato per Natale in una clinica di New York. Al marito, tra sbronze e notti nei bar, ci vorrà tempo per capire di averli persi per sempre.
Pennino e Cavallaro sembrano gemelli. Stesso cappello, stessi occhiali da sole. Stesso sorriso. Per tutto il viaggio hanno progettato di aprire un’attività insieme. Gli ultimi accordi parlavano di un ristorante. In alternativa, l’acquisto di un veliero per le crociere nel Canale.
L’unica stonatura è Conan. Manca, e ci manca. Ma l’aveva detto fin dall’inizio, che sarebbe rimasto in Italia. “Una rivincita va gustata lì dove ti hanno sempre umiliato”, ha spiegato.
Per la sua parte, gli arriveranno via mail le chiavi di accesso a un conto estero cifrato. Gli ho solo raccomandato di non mettere più la parrucca e non assumere un assistente indiano. Sarebbero gli unici modi per riconoscerlo.
Quando scendiamo è come rinascere. Uno stormo di are gialle ci passa a pochi metri dalla testa. Intorno, ovunque, un profumo stordente di orchidee.
Sbrighiamo alla svelta i controlli di polizia, non abbiamo quasi bagaglio salvo due sacche da spalla.
All’uscita, tre uomini ci attendono con gli occhi all’orologio. Quando ci scorgono ci vengono incontro. Frettolosi, impazienti.
«Benvenuti» sorride largo il più anziano. Ci stringe la mano. «Sono Ramiro Lopez, direttore della Caja del Mar di Panamá.» Parla un italiano impeccabile: figlio, spiega, di vent’anni da agente di cambio a Milano. «Ovviamente le confermo la massima discrezione mia e della mia banca, per cui non voglio sapere come è riuscito a superare i controlli doganali… Mi dica solo se è tutto a posto.»
Annuisco; gli occhi, insieme, euforici e stanchi.
«Assolutamente sì. Aspettiamo solo il permesso di risalire sul Falcon.»
Lui ha una smorfia di stupore. Tende la fronte, mi interroga con lo sguardo.
«Un… Falcon? Cioè, siete venuti con un aereo privato?»
«Ci abbiamo attraversato solo l’Atlantico. Dall’Italia alla Spagna abbiamo preso un volo di linea. Poi, il tempo di passare al caveau del Banco di Malaga e siamo ripartiti.»
Parlando ci approssimiamo all’hangar dove hanno sistemato il jet. Il pilota è fuori, ci aspetta con gli agenti di guardia. Li ha avvisati che staremo un po’ a bordo con i bancari per una riunione discreta.
All’ingresso c’è una perquisizione annoiata, qualche mano di troppo sul sedere di Orietta. Ma alla fine passiamo.
Risaliamo la scaletta nell’odore stagnato di grasso e vernice; poi i tonfi sulla moquette, la vista soffice delle imbottiture in pelle. Bottiglie vuote di champagne, bicchieri a terra, un accappatoio dismesso.
Don Ramiro e i suoi paiono perplessi. Rimbalzi di sguardi dall’uno all’altro; poi tutt’intorno, infine su noi.
«Mi scusi, señor, ma… Non avrà lasciato il bagaglio qui, spero. L’avranno di certo trovato, nessun aereo privato esce dalla pista senza essere perquisito con lo scanner. Anzi mi meraviglio che la polizia non…»
Mentre ancora parla gli do le spalle, mi avvio nella cabina di pilotaggio. Cerco l’interruttore e accendo le luci nel corridoio.
È come un’esplosione, una cascata di colori. Un paradiso di luce che spezza il respiro.
Ramirez resta muto, la bocca socchiusa. Gli vado accanto e lo prendo a una spalla. Indico il soffitto.
«Si alzi, controlli pure. Più o meno, ce n’è uno in ogni faretto.»
Il che, messo in numeri, fa venticinque. O meglio: ventisei, meno uno. Quello che abbiamo dovuto spendere per noleggiare l’aereo e assicurarci il silenzio del pilota.
Ventisei diamanti da due carati l’uno, dritti dalla collezione dei Garcia Mendez di Malaga. Battuti in blocco all’asta della Sotheby’s milanese per quattro milioni di euro, a favore della pregiata Maiadero Acciai S.p.A.
Un conto è essere ladri, un altro usare ciò che si compra con i soldi altrui.
Perché se si è, insieme, figli d’un orafo e di un truffatore, il dna è troppo ricco per rassegnarsi a morire poveri.
Guardo Orietta e suo figlio; poi Pennino, Cavallaro.
Siamo tutti belli, solari, esaltati e distrutti.
Il tempo di firmare qualche documento e domani voleremo, per sempre, sulla spiaggia di San Blas. Nessun rimorso, spalle al passato, l’orizzonte srotolato nei colori di un arcobaleno infinito.
Lontano, in Italia, su una foglia di pesco, un insetto ride e assorda il mondo.