Noi che s’era giovani tra gli ’80 e i ’90 questa storia del coprifuoco, a Battipaglia, l’abbiamo già vissuta. Solo che all’epoca non si spariva dalle strade per motivi di salute pubblica: virus da contenere non ce n’erano, al massimo si vivacchiava con qualche caso di salmonella, brucellosi ed epatite d’ordinanza dei tossici più veterani. Certo, erano tempi in cui tirava parecchio l’Hiv, ma giacché il grosso si prendeva copulando con partner occasionali o scambiandosi siringhe infette, quelli di noi che non erano eroinomani la sfangavano più o meno facile: l’altra causa, quella sessuale, sì e no ci sfiorava, ché i rapporti più che occasionali erano proprio epocali. Roba, per capirci, che nel tempo tra l’uno e l’altro s’era non solo trovato il vaccino per qualunque epidemia, ma anche il sacro Graal, la pillola per l’immortalità e la fonte magica dell’eterna giovinezza.
Eppure, dicevo, il coprifuoco c’era uguale. Non era imposto da nessuno: era autodeterminato e autogestito. Una botta di coscienza civica senza eguali, insomma: tu giravi in strada, e a un certo punto era come quando ti trovavi a casa di qualcuno e t’accorgevi che dovevi togliere il disturbo, che magari quelli dovevano uscire o aspettavano altre visite. Cominciavi a sentire questo scroscio di saracinesche che s’abbassavano una dopo l’altra, quasi all’unisono, commesse che davano l’ultima spazzata ai marciapiedi antistanti, parcheggi che di colpo si desertificavano peggio che in quei film da cineteca sui ferragosti romani. T’aspettavi pure che da un momento all’altro venisse qualcuno a tirar giù una qualche immaginaria, gigantesca leva per spegnere i lampioni: “forza, signori, affrettatevi che la città sta chiudendo”. Come dire: non c’era manco bisogno di aspettare le ventidue, che già al massimo un’ora prima o rincasavi o ti montava una botta di depressione talmente forte da indurti in stato confusionale. Tanto che quei pochi che trovavi in giro oltre una cert’ora non sapevi se chiamarli rivoluzionari o offrirti di aiutarli a ricordare dove abitassero.
Non c’era, il culto dello svago serale, qua da noi. Penso, io, che nell’ultimo ventennio del secolo scorso Battipaglia fosse, economicamente e socialmente, una città ancora in mano ai pionieri, a quelli che tra un dopoguerra e l’altro si erano riversati in pianura dalle colline vicine per guadagnarsi il pane con più profitto e meno tormenti. Gente per la quale, in gioventù, i tramonti erano stati per lo più tregue tra un affanno e l’altro. S’era essenzialmente una comunità di pedale, insomma: giornate che iniziavano e terminavano con un anticipo d’un paio d’ore rispetto al proscenio di fuori; sveglia all’alba e di corsa in una tra le decine di fabbriche che ci circondavano a mo’ di cinta muraria, croce e delizia tra progresso economico e regresso conviviale.
Poi però c’eravamo noi, i ragazzi, che di questa fretta di chiuderci ogni sera la vita alle spalle non volevamo saperne. E allora succedeva l’identico scontro di adesso tra allarmisti e negazionisti, ma con diversa sostanza ideologica: di qua i “rientristi”, che dopo due chiacchiere svogliate si rassegnavano a tornarsene a casa, e di là i “trasfertisti”, che pur di ravvivarsi la serata accettavano di stiparsi in sette in una Fiat 126 e raggiungere, fosse pure a decine di chilometri, qualunque luogo con un tavolino a cui potersi sedere: un bar sgangherato, una paninoteca, il raduno notturno d’un qualche coro parrocchiale. O, in mancanza di meglio – sommi profeti dei DPCM a venire – un buon autogrill.