Oggi nel mio condominio c’è una ricorrenza speciale: è una settimana esatta che abbiamo adottato la nostra spazzatura, davanti al cancelletto del parco. Con una piccola colletta l’abbiamo sverminata e vaccinata, e ora facciamo i turni per prepararle da mangiare, spazzolarla e portarla a fare i bisogni. Che tenera.
Carta e cartone adesso sono parecchio più alti, si sa che sono razze che crescono in fretta. Il secco tanto secco non lo è più, ha messo su un paio di chiletti, ma nei punti giusti. E la carta accoppiata alla fine s’è accoppiata sul serio, e ora abbiamo una splendida cucciolata di tetrapack.
La mia dirimpettaia ha già pubblicato le foto su facebook per trovarle una famiglia: i maschi ce li teniamo, ma le femminucce dobbiamo darle via. Dispiace, ma quando non hai lo spazio è una sofferenza soprattutto per loro.
Poi chiaramente c’è il rovescio della medaglia: beghe di leggi e regolamenti, dicono, la situazione non è a norma. Si corre il rischio che ci taccino come allevamento abusivo e chiudano tutto, portando le bestiole in un centro specializzato. Ma sono minacce a cui non crediamo, è ovvio. Sono giorni che dicono così, ma fortunatamente non si è fatto vivo ancora nessuno. C’è un film che mi viene in mente, in queste circostanze. Non ne ricordo il titolo, ma sostanzialmente verteva su un tizio che nel tentativo di aiutare il prossimo finiva inevitabilmente per complicargli la vita.
Ho vissuto i miei primi venti-venticinque anni a Battipaglia in un’indifferenza politica generale, un’anarchia di iniziative e direttive che Babele scansati. Nemmeno li sapevamo, i nomi dei consiglieri comunali. E degli assessori ancora meno. Al massimo conoscevamo quello del sindaco, perché lo leggevamo sotto quei rari manifesti istituzionali che proprio non poteva evitare di far affiggere: una gara qua, un divieto di balneazione là, un’interruzione idrica di sguincio.
Intorno, intanto, ciascuno si faceva gli affari suoi attento a non pestare calli: i costruttori lottizzavano, demolivano, ristrutturavano, elevavano grattacieli abusivi su ex palazzine monopiano del ’32. Ogni tanto una multinazionale s’armava di finanziamenti statali per il Mezzogiorno e alzava cattedrali riempiendole di manodopera segnalata dall’onorevole o senatore di turno.
Il personale degli ospedali era sovradimensionato, e al pronto soccorso – altro che tre ore d’attesa in accettazione – neanche arrivavi e già trovavi ad accoglierti due portantini con la carrozzella, il medico in smoking e la caposala col cocktail di benvenuto.
Vivevamo scollati, tant’è. Imperfetti ma sazi. Fallaci e contenti. Noi ignoravamo la politica e la politica ignorava noi. Non annusavamo il malaffare, perché non conoscevamo il buonaffare. Per dire: a Natale, non sapendo come fossero le decorazioni pubbliche nel resto del mondo, pareva uno sforzo non dovuto anche quella stitica luminaria giallorossa sui cedri di piazza Aldo Moro.
Poi niente, sono arrivati loro. Quelli che dai palchi hanno cominciato a parlare del “bene della città”. Che l’hanno ripetuto per decenni come un mantra, una formula magica, un sortilegio. Che ci hanno spiegato che tutte quelle cose che a noi stavano bene, che ci facevamo scorrere addosso perché in fondo avevano portato, più o meno a tutti, un lavoro, un tetto, il tabaccaio sotto casa, una sanità accettabile, servizi pubblici essenziali ma funzionanti, erano figlie della corruzione, della cattiva amministrazione, della politica clientelare.
“Ci pensiamo noi”, hanno detto, “finora vi hanno bendato gli occhi e vi hanno nascosto la verità. Ma da oggi vi faremo vedere come funziona”. Ecco: magari, in futuro, di bene della città anche un po’ meno, grazie. Non fosse altro perché in questo momento, in piena notte, sono in strada a calmare due buste d’organico che ringhiano contro un gatto.