di Carmine Cappetta
Carmine Cappetta è un 30enne battipagliese trapiantato a Milano; ingegnere elettronico con la passione per la musica. A Battipaglia è nato, cresciuto, ha studiato e ha mossi i primi passi “musicali” al bar Capri. Tra le sue passioni la fotografia, il cinema e l’arte. Si definisce un gran rompiscatole per la sua propensione a lunghe discussioni. Ma cosa ci fa qui oggi? Ci racconta come ha vissuto, e sta vivendo, l’emergenza Coronavirus lui che si trova nella zona “più rossa di tutte”: Milano.
“Sono a Milano da due anni e mezzo, vita tranquilla tra lavoro e qualche uscita, mai avuto nessun problema, né in casa, né fuori; insomma, sono stati due anni e mezzo in cui tra ambientamento, abitudine alle nuove mansioni e creazione di una nuova cerchia di amicizie e conoscenze, non c’è stato tempo di annoiarsi. E sono più che soddisfatto del lavoro fatto, delle opportunità avute e degli incontri lungo il cammino: Milano è ormai una seconda casa, anzi, una casa lontano da casa.
Tre settimane fa, però, in quell’ingranaggio qualcosa inizia a stridere: ricevo una mail dall’azienda, mi chiedono di andare in smart working. So perché lo stiano facendo, ma so benissimo cosa significherà: maggior impegno, maggior fatica a mantenere la concentrazione, cosa che inevitabilmente porterà ad orari di lavoro più lunghi. Insomma, si fatica di più per giungere agli stessi risultati, perché viene meno parte del lavoro ‘d’equipe’ e anche le pause caffè in cui tra un sorso e l’altro si giungeva a qualche soluzione. Due settimane, mi dico, poi riusciremo a tornare alla normalità.
Una normalità a cui non siamo tornati, ma questo ormai lo sapete bene anche lì. Pian piano ci siamo abituati ad uscire una volta a settimana per fare la spesa, a non prendere i mezzi, a organizzare una routine casalinga in grado di farci pesare meno la cosa. Dopo 21 giorni la situazione inizia anche a farsi psicologicamente difficile: qualche lite con i coinquilini, qualche giorno in cui lavori eccessivamente perché non sai cosa fare, la costante e dilaniante sensazione che se qualcosa accadesse non potresti neanche tornare a casa. Quello è il tarlo che rende le giornate più pesanti perché, vedete, io ho 30 anni e sono moderatamente in salute, ho ottime possibilità di superare questa crisi, ma gran parte dei miei affetti e la quasi totalità dei miei familiari sono ancora a Battipaglia e il pensiero di non poter essere vicino ai miei cari e ai miei amici se dovesse accadere qualcosa di brutto è opprimente.
Nonostante questi pensieri, la prima reazione alla visione delle immagini dell’assalto ai treni di sabato 7 Marzo è stata lo sgomento. La guerra alla malattia fino a quel punto era esclusiva di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Quel trasferimento incosciente di persone da nord a sud rischia di aver innescato lo stesso meccanismo che stiamo ora vedendo a Milano e dintorni nell’altra mia casa. Ero avvilito: abito a 15 minuti a piedi dalla stazione Garibaldi e la tentazione di urlare in faccia ai partenti era moltissima. Poi però ho cercato di capire cosa gli sia passato per la testa e valutare, senza giudizi manichei, in modo compassato, quasi neutrale. E allora sì, sono stati degli idioti, degli sconsiderati, ma le anticipazioni sul decreto legge uscite in nottata hanno creato panico. Pensavo soprattutto a mia madre che mi aveva invitato ripetutamente a tornare a casa, ricevendo sempre risposte negative di un figlio che a parole sa benissimo essere anche rude moltissime volte. Rude, ma logico; io, come moltissimi altri battipagliesi, abbiamo scelto di rimanere a Milano per svariate ragioni, ma soprattutto una: la salute dei nostri cari vale più di un attimo di felicità con loro, perché senza la prima non può esserci il secondo.
Cerco di farmi forza pensando ai miei fantastici coinquilini che, grazie a qualche chiacchierata in cui si spazia da argomenti complessi ad inezie, ai pasti organizzati insieme, all’aperitivo organizzato in casa post lavoro, alle risate e ai giochi da tavola, mi stanno aiutando tantissimo. Senza la mia squadra di milanesi non milanesi sarei perso. Stiamo anche avendo modo di interagire molto di più col coinquilino brasiliano, ancora studente, che è pure il più giovane di noi e che stiamo cercando di rassicurare e aiutare in tutti i modi possibili; ne stiamo ricevendo in cambio qualche termine in portoghese da poterci giocare per le prossime vacanze a Lisbona, Oporto o Rio de Janeiro del 2021 (si spera a questo punto)…
Nonostante ciò, i giorni in cui il crollo psicologico è comunque dietro l’angolo sono frequenti. Ci sono giorni in cui pensi di non potercela fare o in cui vorresti che la musica proveniente dal flash mob si arrestasse perché tu stai ancora lavorando e non riesci a concentrarti, nonostante il vicino abbia ottimi gusti musicali e mi stia deliziando con la discografia completa di Pino Daniele e degli Squallor a rotazione. Ci sono notti in cui ti stendi a letto e vorresti che il sonno arrivasse all’istante, sono quelle in cui fai le 3 in compagnia dei tuoi pensieri disfunzionali sul fatto che ci vorrà tempo, che anche dopo la crisi i problemi continueranno, col tuo non essere mai abbastanza per te, per gli altri, per gli obiettivi che vorresti raggiungere.
I piccoli momenti di sconforto di questi giorni sono stati molteplici, essendo abituato a essere sempre in movimento e tra la gente tra lavoro, concerti, prove con la band, volontariato e uscite con amici, essendo abituato a una città in cui puoi confonderti tra le altre persone perché nessuno sano di mente ti discriminerà in questo melting pot, mentre ora tutti ci guardiamo di sottecchi al di sopra di mascherine e panni per coprire naso e bocca anche quando siamo banalmente in fila alla cassa del supermercato. Poi, però, ti giri, vedi il cellulare, lo sollevi e chiami casa, chiami tua sorella ormai anche lei fuoriuscita dalla Campania per lavoro, senti gli amici più stretti.
Per un attimo, magari anche continuando a parlare della situazione surreale in cui ti trovi a vivere, che tanto ricorda alcuni film di Romero in qualche scorcio, dimentichi il resto e ti ritrovi a parlare di numeri, statistiche, persino sport con tuo padre o di cosa stai leggendo con tua madre, a condividere informazioni che possono essere utili a tutti gli interlocutori, a scambiare due parole con i nonni che di situazioni anche peggiori sono stati testimoni, seppur da bambini. È come se fossi ancora in quella casa in cui sono cresciuto come persona e come uomo. In una situazione di estremo disagio, in un periodo in cui gran parte delle generazioni over 50 vedevano Internet come l’oppio dei giovani, la rete si prende la propria rivincita diventando l’unico strumento di connessione e di assembramento mentale e spirituale che ci sia rimasto in un momento del genere.
Perché, dopotutto, nonostante il Coronavirus, nonostante la crisi economica, nonostante tutto, abbiamo come comunicare con tutte le persone con cui dobbiamo e vogliamo farlo. Ho visto amici laurearsi su Skype, io stesso partecipo a meeting lavorativi quasi quotidiani con colleghi che fino a qualche giorno fa avevo la fortuna di vedere in carne ed ossa (sono ancora lì, con la parola giusta al momento giusto e con la mano tesa e ci rivedremo presto), ho gioito con amici che avevano problemi di immunodepressione nello scoprire che stavano bene e che non avevano avuto contatti con altre persone durante questo periodo, ho gioito e sofferto con gli amici medici che nei vari reparti continuano a svolgere un lavoro essenziale anche quando i numeri lo consentono solo con sforzi estremi.
È chiaro come stia venendo fuori il meglio e il peggio di noi, come in ogni crisi. Allo stesso modo sta venendo fuori ogni giorno il meglio e il peggio di me: parte di me sarebbe incline a crogiolarsi nella preoccupazione e a lasciarsi andare a sentimenti accidiosi, l’altra parte, quella che provo a far venir fuori nelle discussioni ogni qual volta mi sia possibile, cerca invece di spronarmi a migliorare, a prendere questa situazione come una prova e a dimostrare che posso fare sempre meglio anche in condizioni non ottimali, che posso privarmi di quasi tutto, che la mia libertà non è tanto una condizione fisica quanto mentale. Faccio esercizi a corpo libero in casa quando posso, suono (come sempre male) la mia chitarra classica, leggo moltissimo, mi informo controllando le fonti, gioco online con i miei amici salernitani per aggiornarmi sulle loro condizioni e su quelle delle loro famiglie, resto a casa.
Sapete, non servono super poteri per salvare il mondo o per risolvere situazioni complesse, spesso serve solo buona volontà, logica ed empatia nei giusti dosaggi, come diceva Borges ne “I giusti”, uno dei miei componimenti preferiti.
I giusti, J.L. Borges
Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che intuisce un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.
Ciao Battipaglia e ciao battipagliesi, a presto. Riguardatevi, preservate la vostra salute e quella dei vostri cari, curate per quanto possibile la città e, soprattutto in questo periodo, lasciate alle spalle le cose di poco conto e stringetevi attorno a un obiettivo comune: la sopravvivenza, la cura e il rispetto dei più deboli della comunità e della comunità tutta.