Nella città dei miasmi, appunti per uno stradario dei profumi

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In autostrada, immerso nel lento fiume di auto vacanziere che scende alle Calabrie, più prosaicamente diretto a una sagra, lungo la zona industriale di Battipaglia, un fetore si spande in macchina, e d’improvviso mi ritrovo bambino, chissà verso quale destinazione con la famiglia, mentre chiedo “Papà, ma che è ‘sta puzza?” E mio padre che risponde “È Solofra”. Ricordo come mi sembrasse strano che un intero paese potesse produrre una puzza. Dovevano impegnarsi tanto a fare i bisogni in strada vincendo ogni pudore, per far arrivare il tanfo da quelle case lì in fondo, così lontane. Dovevano essere uomini diversi, forse nemmeno uomini davvero, una razza anomala, mezzi mostri confinati in quel paese che perciò si davano a chissà quali pratiche misteriose.

Vivevo quegli anni d’infanzia in un vicolo al cui imbocco su via Mazzini si spandevano i fumi caldi dalle teglie della pizzeria da Giovanni, subito dispersi d’intorno per il deliquio dei bimbi randagi che eravamo, limite territoriale segnato anche dal profumo scuro di legno, di miele, di sottobosco della tabaccheria De Crescenzo, piccolo scrigno di sigari e caramelle.

Dentro il vicolo invece Antonio il ciabattino offriva le esalazioni dense e pungenti del mastice e della cera riscaldata su un trabiccolo a petrolio, mistura stordente che sapeva di una chimica antica, ignara di ogni salubrità. Quasi come un apparato digerente, alla bocca del vicolo profumata di pizza, a fondo strada corrispondeva l’ano dall’odore inquietante della macelleria, quel ghiacciato sangue animale trattenuto a stento dai frighi che, bambino, mi ha stampato per sempre dentro un senso di violazione.

La salvezza veniva dalla drogheria Rocco, giardino fiorito di lozioni, detersivi, polveri, spezie, affacciata su via Roma che da quel punto portava, a sinistra, direttamente ai coloniali Camporaso dal potente effluvio di cioccolata e caffè, e a destra, qualche curva dopo, alla pasticceria Parrella, tappa domenicale dove immergersi negli aromi di burro e caramello dei cornetti, rituale profano dopo quello sacro della Messa, fragrante liberazione dal dovere familiare e dal senso di colpa per la morte di Gesù.

Una sveglia di clacson mi riporta all’autostrada e ai miei tardi anni, ma il tanfo non ha lasciato l’abitacolo, guardo la lunga coda scivolare placida e ordinata e mi chiedo se in qualche auto adesso non ci sia un bambino che chieda di questa puzza, e il padre non gli risponda “È Battipaglia”.

Mi piacerebbe fermarne la macchina e prendere in consegna il bambino, mezz’ora, perché tanto è tutto immaginario, è un sogno, e in mezz’ora ce la faccio a stravolgere spazio e tempo per fargli conoscere qualcosa di Battipaglia, secondo uno mio stradario del cuore disegnato dai profumi, che qui non sono affatto morti, semmai vivono timidi e nascosti, a volte per esplodere, come la fioritura d’aranci di via Roma e via Mazzini, oppure nel giugno che sveglia il muro di gelsomini lungo tutto viale De Crescenzo e ti provoca a un’unica inspirazione lunga cinquecento metri, a volte per farsi trovare solo da chi li cerca, in punti precisi, come al portone della compresa di Ciccio Ciancio buonanima, dove l’umidità dell’inverno gonfia il legno esalando un leggero odore di muffa e di cantina che è mio nonno, la sua vecchia casa, e ogni tanto occorre andare lì per poggiarci il viso, come quando affondi il naso nel collo di tua madre per infarinartelo di nostalgia.

Da lì è facile fare un salto in piazza Conforti, sul bordo di via Turco, dove l’alba spande l’aroma bianco del panificio Ciociola che sforna il pane, e se è estate un po’ più in là, in via Bertoni, quando aprono la porta laterale del Santuario e puoi sentirne il fiato, fresco delle vecchie mura e odoroso d’incenso, se è autunno invece sotto i pini di viale della Libertà, appena la pioggia li ha percossi per sprigionarne tutta l’essenza balsamica, o agli eucalipti di piazza De Vita, giusto sotto, alzando il naso e chiudendo gli occhi.

Ma forse tutti questi odori metterebbero fame al bambino e allora lo porterei in quel luogo psichedelico che è via Belvedere, in un punto preciso: al girarrosto Liberti, prospiciente la pompa di benzina Capone. È un testacoda di odori lì, il grasso e oleoso pollo da un lato, l’appiccicosa benzina dall’altro, pollo e benzina, praticamente il paradiso degli odori per un bambino.

A pulire il naso, basterebbero stradine periferiche dove in questa stagione fichi selvatici gocciolano dolcezza matura, o una surfata lungo Serroni alto, effluvio di erbe selvatiche, ortaggi spaccati dal sole e olivi intenti a maturare il viola d’ottobre.

Solo allora riconsegnerei il bambino ai suoi genitori, alla sua strada, immaginando che quando gli ricapiterebbe di passare lungo la zona industriale si ricorderebbe di Ciccio Ciancio e del panificio Ciociola, dei gelsomini e dei fichi, del Santuario e di piazza De Vita, e chissà, un giorno si fermerebbe a festeggiare, quando l’aria di Battipaglia sarà tornata intatta dal sequestro in cui è stata tenuta.