Non ditemi che ho la fissa per le palazzine dei ferrovieri, e va bene un po’ sì. È che sono viaggi nel tempo a buon mercato nei pressi di casa, rara testimonianza in un centro abilmente ripulito di molti elementi antecedenti gli anni Settanta.
Le palazzine dei ferrovieri in via Pastore offrono il sovrappiù di una crociera nel golfo vicino: venendo da via Italia, si attraversa piazza Farina che, come tutte le aree antistanti le stazioni ferroviarie, è periferica anche se in centro, perché terra di passaggio e terra di nessuno per la varia umanità che vi bazzica, marginale se non balorda, mescolanza di razze e guai che guardo refrigerarsi dalla calura estiva su panchine di legno riarse, all’ombra di un monumentale cedro sfiancato, o affacciata alle botteghe dei pakistani che negli anni si sono espanse fino a configurare un micro quartiere etnico, di marciapiede, diciamo, mentre eroica sopravvive Zia Antonietta, tavola calda che ha retto alla scomparsa, per l’abrogazione della leva obbligatoria, di militari in libera uscita – niente più truppa e niente più brividi per quegli uomini e quelle donne un tempo in attesa sotto al cedro, nel buio della sera e del moralismo, per incontri veloci e innocenti, esentati dall’amore e dalle promesse. Così la piazza ora vive per la città che ha alle spalle e non più offerta a chi transita dalla stazione di fronte, edificio che conserva l’eleganza architettonica degli anni Trenta, al cui margine è stato aggiunta, da ristrutturazioni recenti, una sorta di gigantesco acquario dalle vetrate verdi che mostra interni ancora sbozzati di cemento, dalla tipica atmosfera sospesa dei cantieri dimenticati, in attesa che qualcuno porti a compimento, dopo un decennio, una struttura tarata su viaggiatori e ambizioni immaginarie o nel frattempo evaporate.
Difetto di collimazione tra mezzi e fini che sembra affliggere anche la vasta area laterale interessata dai lavori dell’Interporto, distesa abrasa al centro della quale svetta come una piramide maya la scalinata al ponte ferroviario più grande e più inutile d’Europa, che presto godrà della compagnia di nuovi insediamenti residenziali, che sembrano interessare anche la casa gialla e rosa, uno dei pezzi di “altrove” che a Battipaglia si nascondono negli interstizi di palazzi, troppo spesso scovati per l’appetibile spazio verticale che offrono, da destinare a nuovi piani di nuovi palazzi, nuovi mattoni Lego tutti uguali che prenderanno il posto delle tende a righe, della siepe bassa che apre a un giardino rustico abitato da fichi, nespoli, limoni, qui è lì spruzzato di piccoli cespugli di rose e d’immancabili gerani, nella luce, nell’aria, nei ricordi – mattoni Lego. Certamente i nuovi insediamenti residenziali saranno elevati sulle macerie del Dopolavoro ferroviario, luogo di biliardo e gassose, di campetti a buon mercato e docce rotte, confine cittadino sulle terre brade dei capannoni di servizio delle Fs, cimitero di vagoni e campo d’avventura, lungo i binari che un tempo portavano direttamente nella fabbrica Baratta, di ragazzini selvaggi non ancora addomesticati dai computer. Di ciò che era verde allora resta oggi la vegetazione incolta che pare intenta a festeggiare l’inatteso abbandono con uno squatting tra ficus e oleandri prosperosi, appesantiti dalla troppa grazia, ignara di quanto l’aspetta.
Così, superato nella curva di via Pastore le transenne dell’Interporto, è inevitabile soffermarsi davanti alla palazzina dei ferrovieri – attenzione, sono due, gemelle, e sembrano specchiarsi l’una nell’altra, quella preferita ha la grande nicchia incorniciata dal travertino entro cui una madonna espleta i suoi uffici di “gratia plena” sotto una volta stellata, nicchia che sembra il focus dell’intera palazzina e forse anche ciò che la regge.
Posizionato sull’altro marciapiede, lascio arrampicare lo sguardo sui balconi, lungo la facciata ocra dalle suggestioni coloniali, in cui si mimetizzano le imposte in alluminio anodizzato e i segni di contemporaneità che nel tempo ho imparato ad ignorare – antenne paraboliche, sedie di plastica, bombole del gas – per concentrarlo sulle tende che lente si muovono a un refolo di vento svelando stanze vuote e ombrose, fresche di quella frescura umida delle vecchie case dai muri spessi, un’ipnosi che pian piano apre a immaginare donne e uomini alle prese con l’inizio del Novecento, secolo che prometteva bene, in cui il popolo avrebbe preso il potere, e invece perse la vita e ogni bene nella guerra prima e la coscienza di se stesso nella pace poi, finendo drago impagliato verso cui fingere onore e timore, ma con cui ormai giocano a cavalcarlo gli scemi del paese. A guardare le palazzine dei ferrovieri sento di guardare gli ultimi tempi seri di cui siamo stati capaci, dove speranza e avanguardia e rivoluzione erano un’unica parola, il mondo nuovo sembrava a portata di mano e a beneficio di tutti, fino al tragico risveglio nella consapevolezza che l’Eden promesso somigliava all’Inferno, e il mondo andrà come è sempre andato: otto pedoni per un re.
Che poi basta volgersi verso le vetrine sotto i portici sul prosieguo di via Pastore per tornare al presente, un presente alquanto dubbio, come preso in un nastro di Moebius se le vetrine mostrano zainetti a righe Naj Oleari uguali uguali a quelli degli anni Ottanta con cui la moda addomesticò i ragazzini selvaggi diventati nel frattempo adolescenti in cerca di altri tipi di avventura. Che in fondo il tempo possa ospitare molteplici piani grazie alla memoria non è una scoperta recente, e alla fine forse è quello il piacere che ogni tanto mi fa deragliare e trasforma il tragitto diretto a una meta in un girovagare distratto che rischia di farmi finire sotto le auto: cogliere nella campitura piatta della realtà i segni del pennello che l’ha fatta lungo il tempo.