Si chiamava Coppa Azzurra ed ero sempre indeciso tra questa e il ghiacciolo Pino, a forma di orsetto: 700 lire la prima, 500 il secondo. Nessuno la comprava, solamente io, davvero! Era la coppetta fragola e limone della Sanson. Mia zia Giovanna mi guardava dal balcone mentre andavo a passo spedito verso il Bar Infante. Si trattava di attraversare la strada ed ero lì: “La coppetta, grazie. Ah, buongiorno Presidente!”. Sì perché Cosimo Russo è sempre stato “il Presidente”, anche all’epoca, roba di inizio anni novanta, anche per chi non giocava a calcio nella mitica Pro Calcio, e anche per me che abitavo esattamente di fronte casa sua e che avevo meno di dieci anni. Le storie che da ieri tutti noi, per vezzo della bastarda Atropo, abbiamo da raccontare sul Presidente e che state leggendo copiose sui vari social, fidatevi, hanno lo stesso sapore di quei gelati: il gusto della nostra infanzia e della nostra adolescenza.
Ogni cittadina ha storie che si ripetono e si annidano negli spogliatoi calcistici, storie che dipingono gli anni belli, quelli andati, quelli di quando si giocava col Tango in cortile e si sudava a Scuola Calcio in settimana. La tedesca col Super Santos, “Tutto il calcio” nelle orecchie e quel silenzio da sepolcro dopo il pranzo della Domenica, distrutto dalle pallonate sulle saracinesche. Sono sempre le stesse storie, ovunque, perché in fondo i campi sono tutti uguali, al monte o al piano, sopra o sotto al Rubicone, anche se alcuni di erba e altri di terra. Certo, cambiano gli attori e ogni città si affeziona ai propri. Nascono leggende negli spogliatoi e i protagonisti di queste leggende iniziano a far parte della mestizia della nostra andata giovinezza. Non negatelo, amici: quante volte avete narrato, inventando di sana pianta, un aneddoto su Cosimo Russo e la sempiterna fiaba della sfera cuoiata? Oh, sia ben chiaro, me compreso! È normale. È ovvio. Perché il calcio, quello vero, quello della polvere del Sant’Anna, era il calcio del Presidente Russo. Ergo, se proprio debbo scrivere questa specie di coccodrillo, che almeno io possa scriverlo come se fossi seduto in qualche spogliatoio battipagliese, con le scarpette nere graffiate dal fango. “Ingegnere, buongiorno, dove te ne vai di bello?”. “Presidente! Al campo, come al solito. E voi?”. “Al campo, come al solito”.
Non sono mica Moratti!
Dicembre gelido e gelida Domenica mattina. I miei mediamente amati diciotto anni. Una folle partita tra Sant’Anna e Club Valentino Mazzola (almeno credo), gente adulta, roba di trent’anni e più. Come si faccia a giocare alle nove di Domenica è un mistero simile al Terzo Segreto di Fatima. Il Presidente ha passato l’ultima mezz’ora a citare il calendario dell’avvento e, seppure in maniera poetica, vari personaggi del presepio. Le guance rosse dalla rabbia. Per Bacco, ha ragione da vendere: sembriamo ubriachi. Alcuni, in effetti, lo sono per davvero: l’Antico Caffè, tra Angelo Azzurro e B52, pullula di infanti al Sabato sera. “Gianluca”, urla il Presidente all’improvviso. “Se non giochi seriamente te ne vai a giocare sulla CNGEI”. “Presidè”, risponde il nostro capitano, con una faccia serissima e determinata. “Adesso vi faccio vedere un poco di Joga Bonito”. Falcone è un funambolo. Gioca con noi solamente perché si diverte a fare dispetti al fato ma è di ben altra categoria. Russo lo adora e sa bene quanto sia forte. Tace e subito attende la giocata decisiva di Gianluca. Falcone prende palla e punta un avversario a testa bassa. Ferma la sfera e alza lo sguardo. “Presidente, per te” e con la foga d’un artista inscena una danza dalle movenze vagamente carioca, gigioneggiando intorno al pallone. Con il giuoco in pieno svolgimento, non a gioco fermo. Balla eh, non è una metafora: balla e mugugna l’andazzo della famosa pubblicità. “Falcò, tu sarai anche Ronaldo ma io non sono Moratti: a calci ti faccio arrivare in Brasile”, sbraita violaceo il Presidente, mentre Mister Salerno, basito, non sa cosa dire. Ma sotto ai saggi baffi il Presidente sogghigna come un matto! Come avrebbe fatto Moratti.
Il calcio non è danza classica
Quando si hanno quindici anni tutti o molti si credono bravi col pallone anche se sono degli amabili broccacci. Io, invece, ho sempre avuto l’insolita consapevolezza di essere un burlone della palla di cuoio. Amici, non è che me ne facessi un cruccio. Anzi: ero solito compensare l’imperizia tecnica con la precisione nel beccare gli stinchi degli avversari. Quel derby non lo stavo nemmeno giocando e infatti ero seduto a dormicchiare in panchina. Il professore Pecoraro guardò un paio di volte verso di me e poi lanciò un urlaccio:”Patrì, muoviti!”. Ed eccomi in campo: Bertoni-Sant’Anna. Cinque minuti alla fine delle ostilità. Corrichiai verso la metà campo, mentre stavamo per battere l’ennesimo angolo. Cosa assai strana, pensai tra me e me: non ho mai giocato in una squadra del Presidente. Alzai lo sguardo e lo salutai, appollaiato sulla sua proverbiale seggiolina, ma all’intrasatta spuntò un infido avversario. Sguainai lo sguardo verso la sfera ma quello mi uccellò in maniera secca, facendo roteare la medesima tra le mie gambe piantate e fuggì, giulivo, verso la porta. Mancavano pochi istanti e, per giunta, ero appena entrato. Avevo varie opzioni: una bella spallata, che sembra sempre una cosa gentile; un bel calcio sulla gamba, cosa ritenuta assai virile; oppure la vecchia cara scivolata a gambe unite. Quest’ultima mi sembrò la scelta migliore e il fanciullo spiccò un volo di mezzo metro in altezza, disegnando in traiettoria una sorta di triangolo rettangolo, accasciandosi poi a terra, non prima di aver urlato come una giumenta gravida. Io accennai un finto soccorso ma ecco che un nugolo di avversari mi venne incontro chiedendo pubblica impiccagione e provando a strozzarmi o suggerendo professioni alternative alle mie parentele femminili. Dal pulviscolo della baraonda uscì il baffo sornione del Presidente, che afferrò il più facinoroso dei suoi:”Basta! L’importante è che non si sia fatto male”. Si girò lento e sghignazzando:”Patrì, ‘e fatt bbuon. È calcio, non danza classica! ”.
Il sesto senso
Adesso Gennaro Buono è uno dei più importanti sommelier del mondo ma all’epoca era un difensore irto e ispido. Io e Gennaro eravamo cresciuti con Mister Carbone e quando il Presidente lo chiamò ad allenare il Sant’Anna nel Campionato di Promozione del novantaedispari, ci fiondammo al Campo Sportivo per vederne l’esordio. I gradoni era umidicci e quindi stavamo in piedi anche se pioveva e l’aria aveva l’odore di limo. “Presidente, il vostro capitano, sì, quello col codino, sembra assai forte”. “Patrizio, di calciatori bravi ne ho avuti veramente tanti, ma in genere più sono bravi più sono lunatici. Questo oggi non me la conta giusta, sembra in una di quelle giornate da improperi”. “Presidè”, lo incalzò Gennaro. “Mi sembra l’unico che sappia giocare, perché dite così?”. “Uagliò, dopo trent’anni di calcio sviluppi un sesto senso pallonaro. Questo si è presentato con una faccia strana. Questo si fa cacciare fuori!”. Gennaro mi guardò senza trattenere le risate. In effetti sembrava un discorso discretamente cretino. Fischio d’inizio. Battono gli altri. Il capitano del Sant’Anna va incontro alla palla mentre un avversario la gioca comodamente a destra e presta il mancino ad una clamorosa pedata del nostro, la quale, la scarpata intendo, lo ribalta terga a terra. Sono passati non più di tre secondi. Giallo al capitano del Sant’Anna. Egli, codino al vento, dissente con la stessa eleganza con la quale un cane idrofobo schiuma verso un presunto aggressore. “Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare”, senza dubbio declama il divin codino rivolto all’arbitro e forse a Santi vari. “Capitano, la smetta”, sentenzia il direttore di gara, conscio di non poter cacciare fuori un tizio dopo cinque secondi di giuoco, e fugge via per sottrarsi all’ombra imponente del numero nove. Il gioco continua dall’altro lato, mentre l’omone perseguita la brulla terra del campo, dando calci nell’aria e inveendo contro divinità non certo pagane. Ignora completamente lo sviluppo del giuoco anche quando la sfera gli passa nei pressi. Decide d’improvviso di passare dalla religione alle parentele e becca negli affetti materni l’arbitro, il quale, risentito dall’improvvido paragone tra la sua propria madre e gentil donzella dedita al meretricio, sventola il rosso. Si gira Russo verso di noi, parlando direttamente coi baffoni: ”Trent’anni di calcio ragazzi. Trenta”. Cinque minuti di gara. Sesto senso.
Bene, faccio violenza alla mia logorrea e mi fermo qui. È tempo di malinconia. Quando le persone che hanno segnato la nostra bella età se ne vanno è tempo di diventare adulti. Ed è questo che rende tutti tristi, anche coloro che il Presidente, in realtà, non lo conoscevano bene. Perché il calcio è, purtroppo o per fortuna, una delle poche anime di questa dannata città e il calcio battipagliese, quello vero, quello della polvere del Sant’Anna, era e sarà sempre il calcio del Presidente Russo. Presidente, che la terra battuta vi sia lieve. Al campo, come al solito.