“Chi gioca a calcetto è un misto, un cocktail, un frullato de robba, un minorato, un incosciente, un regazzino, un dritto e un fregnone, un professionista pure se nun sa stoppà il pallone e uno che nun sa stoppà il pallone pure se gioca in serie C. Un fanatico, un credulone, un buciardo, un pollo, è uno che passa sopra a tutto e sotto a tutto, è uno che ‘mpiccia, traffica, imbroglia, more, azzarda, spera, rimore e tutto per poter dire: Ho vinto! E adesso v’ho fregato a tutti e mo’ beccate questa… tié!. Ecco chi è, ecco chi è il giocatore di calcetto”
(parafrasando Febbre da Cavallo di Steno)
Sapete parlare solamente di pallone
Vi immagino, con la vostra mezza pinta di birra belga. C’è odore di tabacco e un vociare confuso. Lo so, state per dirlo, in effetti dite sempre la stessa cosa: ”Sapete parlare solo di pallone?”.
Dimenticavo, signore e signori, che voi passate le domeniche pomeriggio ascoltando Lecturae Dantis all’ombra di cipressi secolari. Al posto della Settimana Enigmistica certamente vi dilettate col calcolo tensoriale. Il Venerdì sera Godard e Truffaut. Una fugace lettura di Seneca prima di dormire, al massimo Gozzano. Tutto documentato su Instagram, per Bacco!
Eh sì, beati voi: così colti e così nobili. Orsù, dunque: mi rivolgo a voi e vi chiedo scusa. Chiedo il vostro perdono perché, è evidente, non siete voi a non comprendere, siamo noi che non abbiamo spiegato bene la faccenda. Con il presente, cercherò di ovviare al danno e di dare degno bentornato a un vecchio amico.
Il Calcio e la realtà
Cosa possiamo mai capire noi della vita, visto che “sappiamo parlare solo di pallone?”. Certo, siamo in discreta compagnia. Pasolini consumava le sua già deboli ginocchia sull’amara terra battuta dei campetti di periferia, Camus era un eccellente estremo difensore, Heidegger era un’ala mancina, Sartre usava il calcio come metafora di vita, finanche Leopardi e Saba si inerpicarono in versi pallonari, senza dimenticare Galeano e Soriano o intellettuali come Gianni Minà, Ennio Flaiano e Gianni Brera. Carmelo Bene era spesso ospite al Processo del Lunedì.
Certo, potrei dirvi che l’industria del calcio amatoriale muove milioni e milioni di euro. Prendendo Battipaglia come centro di una ipotetica circonferenza con raggio di 10 Km, all’interno di essa troviamo 30, ripeto, 30 centri sportivi dove poter giocare a calcetto. Senza tenere conto dell’indotto derivante dalla pratica (magliette, scarpette, bevande, riunioni in pizzeria post partita, etc.), parliamo di un minimo di 2.500.000 euro all’anno. Minimo.
Certo, potrei raccontarvi che il calcio moderno è nato a Cambridge e Eton, prima di trovare felice compimento nella “working class” britannica. Potrei spiegarvi che l’analisi fisico-matematica del giuoco del calcio è tra gli argomenti più complessi dello scibile umano. Potrei spiegarvi dei vantaggi medici di una pratica sportiva costante. Tuttavia, non è questo il punto.
Il nostro calcio
Occhio a non confondere il calcio con il nostro calcio! Il nostro calcio, amici, è una livella: il grassone corre più del mingherlino, l’operaio da ordini all’ingegnere, il timido urla al guascone, l’ignorante è più intelligente del dotto, il mite reagisce ai rissosi, il cinquantenne gioca meglio del ventenne, lo sciocco spiega le regole all’avvocato.
Il nostro calcio, amici, è profumo: le casacche appena lavate, il temporale che sta per arrivare, le maglie sudate, le scarpette nuove, le scarpette vecchie, il borsone sporco, la pizza dopo la partita, l’afa del cemento, l’erbetta vera, l’erbetta finta, lo shampoo, la terra dopo una scivolata.
Il nostro calcio, amici, è rumore: la saracinesca col Super Santos, il pallone sgonfio, il calcione sugli stinchi, la recinzione colpita, il palo, l’affanno, l’auto del decimo, il materasso tornati a casa, la spiegazione tecnica, le scarpe in palestra, la rete scossa, il vocale della convocazione, l’esultanza del matto, la pioggia sulla testa.
Il nostro calcio, amici, è ira: le finte scuse dopo il fallo, un passaggio mai arrivato, l’uomo non marcato, la “sola”, la sfida perduta, la scivolata sui piedi, il tunnel subito, il compagno lezioso, la punizione inventata, chi fa tutto da solo, l’intaso del campo sparso per casa, il gol mangiato, il gol subito.
Il nostro calcio, amici, è attesa: dell’inizio trepidanti, della fine stanchi morti, della partita di stasera, della partita di domani, della risposta al messaggio, del Panuozzo, dell’audio con le pagelle, del ritorno dall’infortunio, della fine del turno precedente, degli altri quando sei il primo al campo, dell’ultimo quando si è tutti in campo, dall’acqua a bocca secca, del passaggio ché sei solo.
Il nostro calcio, amici, è un romanzo: “non ci stiamo giocando la Champions”, “gioca semplice”, “segui l’uomo”, “passa sta palla”, “giochiamo palla a terra”, “Cioffi, il tempo è terminato, portate il pallone, grazie!”, “questo è pallone non è melone”, “volevo prendere la palla, te lo giuro!”, “l’hai toccata e non te ne sei accorto”, “voi avevate il portiere”, “eravamo io, Manfredini e Falcone”.
Il nostro calcio, amici, è umanità: negli ultimi 5 anni ho convocato circa 500 persone, dal deputato al bracciante, dal professore universitario all’allocco, dall’imprenditore milionario all’operaio in cassa integrazione, dal carabiniere al delinquente, dall’ex calciatore di Serie C all’amico che non riesce a stoppare il pallone, dal leghista al comunista, dal razzista al volontario, dall’omofobo all’attivista, dal senegalese allo scozzese, dal dodicenne al sessantenne, donne comprese. Tutti insieme. Tutti uguali. Tuttavia, nemmeno questo è il punto.
Libertà e felicità
La domanda è una, una solamente. Cosa spinge un quarantenne a trottignare goffamente in 800 metri quadri di erba finta più dei CD di Winning Eleven, in mezzo a giovincelli che fuggono giulivi palla al piede?
Cosa significa, dunque, questo dannato calcio? Amici, due parole: libertà e felicità. Tutto qui. Si ci veste come dei pagliacci, con questi calzettoni ridicoli, le magliette sempre troppo strette e dai colori impossibili. Scarpe allacciate velocemente. Il rumore dei tacchetti sulle mattonelle. Il piede in campo. Libertà.
Senza maschere, senza obblighi, senza alibi, senza abiti. Vestiti solamente del proprio fanciullino, con il mondo e i suoi problemi chiusi fuori. Senza padroni, senza responsabilità, senza tragedie, senza sofferenza. Senza la realtà. Sessanta minuti di illusione. Felicità.
La felicità, miei affezionatissimi, è fatta di attimi di dimenticanza. Voi, per dimenticare, avrete certamente i vostri saggi modi, noi abbiamo questo vecchio caro amico. Sono appena sessanta minuti alla settimana, a volte qualcuno in più. Lo definite il nostro oppio e può darsi abbiate ragione. Forse è null’altro che un vizio e di certo non un vizio minore.
Chiudete un attimo la pagina di citazioni di Bukowski e posate sul tavolino il Moscow Mule. Perdonateci, se potete. Se non potete, beh, amen! Nell’attesa, ci avviamo al campo. Bentornato amico mio!